La danza della realtà, il ritorno di Alejandro Jodorowsky

Il regista cileno ha parlato oggi, nel corso dell'incontro che si è svolto alla Casa del Cinema di Roma del suo ultimo film La danza della realtà, una rievocazione della sua infanzia dove l'ineluttabilità della Storia incontra il potere dell'immaginazione e ancora una volta a colpire è soprattutto la potenza delle immagini.

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Dopo la proiezione del film Alejandro Jodorowsky entra nella sala e, per rompere il ghiaccio, racconta al pubblico un aneddoto; dice che gli è venuto in mente perché la Casa del cinema è situata in Largo Marcello Mastroianni, quindi rievoca il suo incontro con Federico Fellini: era il 1988 e il regista riminese era impegnato sul set de La voce della luna. Jodorowsky aveva da poco rilasciato un’intervista dove aveva definito Fellini la maggiore influenza sul suo lavoro e questi lo aveva invitato sul set. Quando arrivò Fellini lo vide e gridò: “Jodorowsky!”, l’altro rispose: “Papà!” ma l’idillio fu immediatamente interrotto da un brusco temporale e i due si separarono per non rincontrarsi più. Un dialogo di sole due parole, ma non ne occorrevano altre.

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Qualcuno ha dichiarato che La danza della realtà è il suo Amarcord ma Jodorowsky ci tiene a precisare che, pur comprendendo il bisogno di stabilire delle analogie (meccanismo che il cervello umano mette in atto di continuo perché ha bisogno di ricondurre ogni cosa nuova a qualcosa che già conosce), di fatto il suo film si distacca molto dal modello originario: dove Fellini dimostrava infatti un grande amore per il passato, adottando uno sguardo melanconico e affettuoso come lente che filtrava ogni stortura e brutalità, per Jodorowsky il passato è trasformabile: il regista cileno estrae il passato dalla memoria ponendolo nel presente. La madre, che nella realtà avrebbe tanto voluto essere una cantante lirica, nel film recita cantando ogni frase come se fosse a tutti gli effetti la protagonista di un’opera. Il padre, che non faceva altro che ripetere di voler uccidere Carlos Ibanez del Campo ma non passò mai all’azione, viene spedito nell’assurda e folle missione.
“Voleva quest’avventura? Gliela do nel mio film”, così commenta il regista. La madre, che era una donna sottomessa all’autorità del marito, si trasforma nella pellicola nel Maestro, che inizierà il piccolo Jodorowsky (interpretato dal nipote) alla vita e alla conoscenza di sé e che salverà anche il marito da morte certa, compiendo un vero e proprio miracolo. Potere del cinema.
 
Il regista, assente dalle sale da ben 23 anni (tanti ne sono passati da quando uscì Il ladro dell’arcobaleno) non lesina polemiche sullo stato di salute del cinema e sui produttori: ha dichiarato di vedere uno, due film a sera e di soffrire molto per non aver potuto girare altri film in tutti questi anni a causa di produttori codardi che non avevano a cuore l’arte ma solo il profitto. Segue poi una tirata polemica nei confronti dei blockbuster e del cinema di intrattenimento alla Transformers o Avatar, definito senza troppi giri di parole “mierda”).
Racconta poi di aver viaggiato 2000 km per girare nel suo paese di origine e di essere rimasto sorpreso da come il tempo si sia in qualche modo cristallizzato in quel luogo dimenticato da tutto: tutto è rimasto uguale a come era 90 anni prima, dalla strada principale (che per lui all’epoca rappresentava l’intero universo) al vecchio barbiere, ogni cosa è ancora al suo posto in quella sperduta cittadina ai margini di un deserto dove non ha piovuto per tre secoli. E’ stato un po’ come ricreare il passato, e suo figlio Brontis si è trovato costretto ad affrontare uno shock psicologico nell’interpretare il nonno; la continuità con i suoi vecchi film è evidente (la nana che interpreta una reietta con cui il personaggio del padre, sofferente di amnesia, avrà una storia è la figlia della nana che aveva recitato ne El Topo) ma in questo ha un peso senz’altro maggiore la Storia, laddove nei precedenti rimaneva sullo sfondo. E’ infatti un film che parla anche degli effetti che la crisi del 1929 ebbe sulla popolazione cilena, il 70% della quale era in quegli anni nella totale miseria.
 
A chi gli domanda come ha risolto la dicotomia fra dimensione corporale e spirituale (dicotomia che viene fuori anche nel film) risponde che, influenzato da Gurdjieff, ritiene che nell’essere umano ci siano sostanzialmente quattro tipi di linguaggio: quello intellettuale, rappresentato dalla parola; quello emozionale, che non è trattato dal mondo della cultura ma dall’arte; quello sessuale, che parla tramite il desiderio (e la creatività è parte di questo processo); infine un Io corporale che parla con l’azione.
 
Al termine dell'incontro ricorda quanto l’Italia sia stata importante per lui (non per piaggeria, assicura, e noi non abbiamo motivo di dubitarne), avendo sviluppato il concetto di “psicomagia” a partire da un assunto del futurismo: Marinetti infatti disse “La poesia è un atto”, la parola estirpata dalla sua dimensione originaria può dare l’impulso per agire. E ogni suo film è soprattutto un atto poetico.
 
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