La fatale alleanza. Il nuovo libro di David Thompson

Edito da Jimenez, il nuovo libro del grande critico è un commentario sparso che si interroga sul legame di corrispondenza che per un secolo ha interessato il cinema e la guerra

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Il cinema e la guerra. Due pulsioni che sembrano nate insieme, quasi per guardarsi l’una con l’altra in un gioco di specchi. D’altronde la macchina da presa esiste mentre osserva il fluire di un conflitto, tra due vedute o nelle geografie della stessa inquadratura. Ma è abbastanza per spiegare l’innata corrispondenza tra il cinema e le battaglie? O meglio, l’indiscusso fascino che il racconto della guerra suscita in noi spettatori?

David Thompson, uno dei più grandi critici viventi, nel suo libro La fatale alleanza. Un secolo di guerre al cinema edito da Jimenez, prova a vederci chiaro in questa “dinamica infatuazione cinematografica della battaglia”. E lo fa scrivendo un commentario ancor prima di un saggio che parte da lontano, da quel 1914 che alla guerra, come al cinema, aveva dato un respiro internazionale.

Ma a separare il 1914 dall’oggi non è altro che un secolo di riesami cinematografici del conflitto; alcuni coscienti, altri assuefatti dallo spettacolo bellico. “Sarà un libro scomodo” avvisa Thompson quando procede a spiegare perché la guerra seduca così tanto i sensi del cinema. Proprio lui che è nato nel 1941 in una Londra sotto bombardamenti si interroga sui perché di conflitti spettacolari. “Operiamo nella convinzione che la guerra sia una cosa molto brutta, eppure abbiamo fame del suo banchetto” scrive Thompson mentre ripercorre un immaginario di sguardi bellici, come l’incubo di Mogadiscio nel Black Hawk Down firmato Ridley Scott o il ritratto uniforme che il cinema americano ha fornito dei gangster russi come nell’action Netflix Nobody – Io sono nessuno, storia di rivalsa del mite padre di famiglia che in corpo ha ancora un po’ della combattività del suo passato vietnamita.

Il sentimento della guerra appartiene al popolo americano, sembra voler dire Thompson dicendosi preoccupato della quantità di armi da fuoco nelle case a stelle e strisce. Ma le radici di questa simmetria si trovano anzitutto nelle forme del linguaggio: in quella strana coincidenza che usa lo stesso verbo per girare un film e sparare con una pistola.

“Entrambi gesti con una carica sessuale metaforica – scrive il critico – una sorta di espressione del sé inebriante ma rischiosa. Entrambi i casi consistono in un tentativo di impadronirsi della realtà, di farla nostra”.

Quando queste due gestualità si incontrano (sparare e girare) l’effetto può essere bello e terribile come nel montaggio sulla percezione del tempo di Hiroshima mon amour o lo spirito farsesco di Charlot soldato, che fronteggiava l’orrore con la risata. In questo estroso commentario, Thompson mette da parte l’accademismo dello storico a favore della genuinità dello spettatore, che pesca dalle sue visioni idee e giudizi su un’armoniosa corrispondenza tra la guerra e il cinema, che ha proprio nel conflitto il cuore della sua narrativa.

 

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