La felicità degli altri, di Daniel Cohen

Dalla pièce teatrale allo schermo c’è solo un passaggio a vuoto con attori sottotono o che rubano la scena. Un cinema logorroico che in realtà ha poco o nulla da dire.

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L’incomunicabilità e l’invidia si nascondono dietro le forme della commedia in La felicità degli altri. Entrambi i temi vengono però messi a fuoco con un unico metodo, quello di filmare la parola e affidandosi a protagonisti che nascondono le loro reazioni dietro i loro personaggi (come nel caso di Bérénice Bejo e Vincent Cassel) oppure che, al contrario le rendono plateali. Florence Foresti lo fa di più rispetto a François Damiens.

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Léa, Marc, Karine e Francis si conoscono da molto tempo. L’equilibrio della loro amicizia si sgretola quando Léa racconta agli altri che sta scrivendo un romanzo. Karine è gelosa e Marc, il marito, è a disagio dopo che la donna ha raggiunto un clamoroso successo editoriale. Di conseguenza, il loro matrimonio entra in crisi.

Dalla pièce teatrale dello stesso Daniel Cohen (L’île flottante) allo schermo c’è solo un meccanico passaggio. I movimenti del palcoscenico nel mostrare le rivelazioni e la rottura degli equilibri vengono riprodotti senza nessuna invenzione. Anzi, nelle espressioni degli stessi protagonisti conta prima il dialogo della mimica del corpo. Solo la Bejo agisce sottotraccia mentre la Foresti occupa la scena, si impossessa e fagocita dei desideri degli altri imponendo i propri. La scena del ristorante già mette a nudo i limiti di un film che non riesce ad uscire dallo spettacolo teatrale da cui è tratto, anzi ne è fin da subito prigioniero. Léa non riesce a decidere se e quale dessert prendere. Il cameriere, alla fine esaustro, dice: “Sono là”. I tempi non sono soltanto dilatati ma trasformano una situazione da interessante a ripetitiva fino a diventare insopportabile. E da quel momento in poi il quarto lungometraggio diretto da Daniel Cohen segue la stesso metodo. Magari con scene più brevi (il titolare del negozio della boutique che promette a Léa una promozione in una nuova sede al quartiere parigino della Défense) ma ugualmente compiaciute e al tempo stesso vuote di qualunque contenuto e invenzione.

La storia, in La felicità degli altri, si mangia i quattro protagonisti. Sono così vincolati alla scrittura che li ha creati che non riescono ad avere un sussulto improvviso o una reazione minimamente sorprendente. “È incredibile quanto la creazione dia fastidio”, dice Francis alla moglie Karine. Questa frase La felicità degli altri l’ha presa come modello. In un film sulla scrittura e sul successo vengono ignorati i meccanismi che lo hanno generato. Restano manifesti pubblicitari, interviste tv, case lussuose e moto. E vedere Vincent Cassel così in ombra è uno spreco mentre Bérénice Bejo si salva con il mestiere ma senza convinzione. La felicità degli altri parla tanto, anzi diventa logorroico ma in realtà non ha nulla da dire. Così tirano in ballo aneddoti (Paul Valéry che disegnava prima di scrivere, Flaubert che ha impiegato nove anni per portare a compimento Madame Bovary) e nomi buttati a caso come i  numeri che escono in una lotteria. Il risultato è che la presunzione di questo cinema è direttamente proporzionale alla sua superficialità.

 

Titolo originale: Le bonheur des uns…
Regia: Daniel Cohen
Interpreti: Bérénice Bejo, Vincent Cassel, Florence Foresti, François Damiens, Daniel Cohem
Distribuzione: Academy Two
Durata: 102′
Origine: Francia, 2020

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
1.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.25 (8 voti)
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