La Fratellanza, di Ric Roman Waugh
Un film fatalista che suona come un duro atto d’accusa al sistema penitenziario statunitense, rappresentato corrotto ed impotente, giocato sulla perdita di sicurezza di un uomo normale
Il regime detentivo dovrebbe rieducare, dare il tempo necessario per riflettere sugli errori commessi per evitare di ripeterli, il tutto finalizzato a permettere di rientrare nella cosiddetta società civile recuperato, pronto ad iniziare una nuova vita e pentito del passato. In Shot Caller come nella realtà probabilmente non succede niente di questo.
Jacob (Nikolaj Coster-Waldau) dopo aver causato un incidente automobilistico mortale viene condannato a passare del tempo in una casa di pena e deve condividere il suo spazio con individui della peggiore risma, gente spietata e senza scrupoli, organizzati all’interno del perimetro carcerario in clan strutturati in base ad una rigida distinzione etnica. Messicani, ispanici, neri, ariani costituiscono gruppi distinti, muniti ognuno di un codice di condotta ed un diverso grado di controllo e di potere dovuto al numero ed alla forza dei suoi affiliati, risorsa indispensabile alla quale affidarsi per sperare di assicurarsi una permanenza più agevole.
Jacob perde la sua identità insieme alla sua vita precedente. Diventa Money, scalando posizioni fino ad arrivare ai vertici di una delle organizzazioni, la Fratellanza ariana, si macchia di crimini impensabili prima dell’arresto. Un bel lavoro, una bella moglie, un figlio piccolo, un mutuo per la casa. Quadretto idilliaco stravolto in un secondo per una distrazione che dunque ne mette a nudo le fragilità e ci ricorda quanti sia facile perdere il lavoro di una vita in un battito di ciglia, anche in assenza di una colpa evidente, di un vero peccato da farsi perdonare.
Cadere in ostaggio di un sistema blindato nella ottusità delle regole, sentirsi sotto pressione in una trappola priva di vie d’uscita a rischio della sopravvivenza significa rivedere le proprie convinzioni morali, le spocchiose ideologie borghesi, programmare nel breve termine un piano adatto ad alleviare lo stringente stato d’ansia sporcandosi nel torbido. Cominciando dalla piccole cose per alzare sempre più l’asticella del tollerabile dotandosi di alibi circostanziali per non inquinare troppo la coscienza.
Un film fatalista che suona come un duro atto d’accusa al sistema penitenziario statunitense, rappresentato corrotto ed impotente, giocato sulla perdita di sicurezza di un uomo normale. Un uomo che al bacio della paura ha effettuato con pragmatica lucidità una scelta, schierandosi, in continuità con la precedente esistenza, dalla parte agevolata, senza troppe crisi di coscienza.
Le ideologie sottointese nell’ampio sfoggio di segni di appartenenza disseminati sui corpi dei detenuti hanno complessivamente poco peso sul totale della storia del protagonista, sono staccate dal substrato ed utili al regista Ric Roman Waugh come strumento per differenziare delle collettività e metterle in conflitto, per restituire il clima generale. Ottenendo come risultato degli individui motivati esclusivamente da interessi personali, delinquenti che cercano nei simboli una bieca copertura. Stessa squallida motivazione di autocompiacimento che proviene anche dall’altra parte della barricata, quella legge acquattata dietro un simbolo diverso, il distintivo, altro segno d’appartenza, che garantisce l’impunità pur in presenza di comportamenti e metodi discutibili.
Titolo originale: Shot caller
Regia: Ric Roman Waugh
Interpreti: Nikolaj Coster-Waldau, Jon Bernthal, Lake Bell, Emory Cohen, Jeffrey Donovan, Benjamin Bratt, Jessy Schram, Omari Hardwick, Holt McCallany, Juan Pablo Raba
Distribuzione: Notorious
Durata: 121′
Origine: USA, 2017