La logorrea artistica di Julian Schnabel

L’occhio del pittore  si rivela costantemente sul nastro di poliestere. Il progressismo non è mai un azzardo ardito, ma la chiara possibilità ignorata, la consocenza assopita, l’intuito selvaggio che non ha parametri. Il virtuosismo dimesso di ciò che è palese ma al contempo inatteso, la realtà che si mostra così semplicemente bella nella sua imperfetta fatalità, da non apparire artefatta.

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schnabel“Uso qualunque strumento mi consenta di tradurre i miei impulsi in un'evidenza fisica".

 

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 I sensi. Quelli più intimi e viscerali.Le corde al di sopra della perizia e al di sotto della comprensione. La lettura mai viziata e sempre inconsolata. La coerenza che sfugge alla linearità e trova in essa un suo binario di ricerca bulimica, eclettica, inafferrabile.

E’ la mano che dirige un pennello e poi colora una pellicola senza reticenze. L’aspetto arcigno che nasconde con diffidente presunzione la “farfalla” al suo interno. 58 anni e una voracità artistica che contraddistiguono la più poliedrica figura del nostro secolo. Julian Schnabel nasce a Brooklyn, New York, nel 1951 da padre cecoslovacco e madre americana. Nonostante le sue origini ebree, compie la sua formazione presso una scuola cattolica in Texas, che lascia dopo aver conseguito la laurea all’Università di Houston nel 1973, per partire alla stregua di New York, di un programma di studio presso il Whitney Museum, delle prime esposizioni presso il museo di arte contemporanea di Houston, e della paga da 200 dollari alla settimana che il lavoro di cuoco gli procura. E infine dei quadri, quelli dipinti fino a notte fonda. Schnabel emerge dal buio di una condizione provinciale implosa nella riluttanza dei suoi limiti culturali, ed esplode le sue ossessioni mescolando la genesi impregnata dell’atmosfera dei young americans e le vibrazioni estrinseche dell’espressionismo. Amalgama il tutto e lo condensa in opere visionarie e frammentarie, quali sono i suoi celebri Plate Paintings degli anni ’70, dipinti realizzati su cocci di piatti che fungevano da sfondo, a sottolineare lo sperimentalismo e la disarticolazione visiva con annessa  rinuncia al primo piano, file rouge delle sue produzioni pittoriche e non.
Finto naufrago, approda prima sulle rive del panorama musicale pubblicando l'album country-rock "Every Silver Lining has a Cloud" nel 1995, che, toccato dalla sua inesauribile aurea, finisce per accordare gran parte della critica che lo accoglie positivamente. Ma l’arte è autodeterminazione, e risoluzione dell’indicibile che prova a comunicare il proprio delirio afono. L’arte è, come lui stesso la definisce, “il territorio violento del contrasto”. Lo è una tela, e lo diventa nelle sue mani ancor di più una pellicola, sulla quale Schnabel con strumenti vergini cicatrizza l’avanguardismo ludico ed infetta una tradizione che strizza l’occhio al progressisimo.
Nel 1996 comincia  ad affacciarsi spavaldamente alle sale cinematografiche battezzando il filone del bio-pic sviluppato su soggetti e tematiche differenti, in una libertà talmente totale che sembra appartenere più all’incoscienza del genio, che alla purezza di un cineasta. Il primo suo drudo sarà Basquiat, protagonista dell’omonimo lungometraggio, che da “modesta” opera prima, esalta e istruisce sulla figura idolatrata del giovane artista afro-haitiano, attraverso il raro filtro di icone sacre come David Bowie nel ruolo di Andy Warhol, Dannis Hopper, Benicio Del Toro e Christopher Walken. La periferia newyorkese degli anni ’80,  strade come giungle e muri come tele, il senso di inferiorità che traveste l’autoaffermazione da pubblico riconoscimento, l’eroina, una morte dannata e consapevole . Dietro tutto ciò c’è il regista, il pittore, le visioni e le sue ossessioni. C’è la cultura metropolitana e la sporcizia coperta dalle riviste patinate. E c’è il suo primo tentativo di scavare oltre, in un moto pluridirezionale e sconfinato, in una furia cieca d’amore per l’arte che lo condurrà al suo secondo film nel 2000, “Prima che sia notte”.
Di nuovo una biografia d’artista, ma il registro muta insieme allo scenario. Siamo a Cuba,  in un’aperta contestazione al regime repressivo di Fidel Castro e siamo  tra le pagine del noto poeta Reinaldo Arenas (Javier Bardem), che insieme a malati mentali e a ex carcerati, è costretto all’esilio e ad una nuova vita tutta americana. Torna la malattia, e il tormento che non ha fine, quello che non è conseguenza ma una sola impronunciabile causa. La pellicola, insignita del Leone d’argento alla 57° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vibra d’emozioni trasudate dalla pelle così fastidiosa e sporca del protagonista in clandestinità, talmente vicina da leggerne i pori e sentirne l’odore, e sbeffeggia, senza presunzione ma con sommessa consapevolezza, un’acume accresciutosi negli anni. Schnabel affina le sue doti, le coltiva seppur selvagge, le forza in un canale e le costringe all’outing senza vergogna o senso del peccato. Ancora un viaggio fisico, nella dimensione psichica, e oltremodo mentale nella sua imposizione corporea. Nel calore delle strade, nella semplicità delle carceri ancora umane e nella povertà delle case illegittime, non c’è forzatura visiva, ma un sottile, infame sguardo, che senza prevaricare si tiene con la videocamera sul ciglio della strada. Ma non ne riprende i percorsi bensì i vissuti.
Nel 2007 decide di riesumare l’insuccesso del celebre artista nel  film – documentario “Lou Reed’s Berlin” , producendo un’ emozionata parabola che mescola il dramma della liberazione della gelosia con quello della redenzione dell’intima sofferenza, in un climax che segue le note di un concept album dimenticato troppo in fretta. Il concerto  al St. Ann's Warehouse di Brooklyn, filmati della figlia Lola, Caroline e i suoi amanti, e sullo sfondo un collage di quadri che sostituiscono il muro della città tedesca.
 Ormai forte della fama conquistata in campo cinematografico, nello stesso anno Schnabel continua sul filone del bio-pic – ancora una volta pluripremiato con due Golden Globe (miglior regia e miglior film) , la Palma d’Oro al Festival di Cannes (miglior regia) e ben quttro candidature all’Oscar- portando sul grande schermo la storia di Jean-Dominique Beauby, redattore della rivista Elle, che, ripresosi dal coma in seguito a un incidente, saggia l’impossibilità della comunicazione dovuta alla paralisi, e la devia, riuscendo a dettare un libro col solo movimento che il suo corpo gli permette di compiere: battere le palpebre dell’occhio sinistro. “Lo scafandro e la farfalla” titolo del testo e del film stesso, marca un rischio voluto e una raffinatezza che non seguono norme, ma che sfidano in maniera geniale la mimesi tra spetattore e attore. Il duplice sguardo attraverso il quale è raccontata la pellicola – quello esterno di chi assiste alla tragedia e quello interno che il dolore lo  vive- distingue anche le due dimensioni in cui questo pezzo di storia si divincola.
Il movimento, l’inquadratura totale e l’espressione orale come elemento codificante della condizione esterna all’atto. L’immobilità, le riprese che giungono dall’iride del protagonista e il mutismo che genera verbo. Due visioni parallele e crudeli. Il parziale che si libera del proprio scafandro e diventa completo. Tragedia senza pietismo e azione senza giudizio.
Ancora l’occhio del pittore che si rivela sul nastro di poliestere. Il progressismo non è mai un azzardo ardito, ma la chiara possibilità ignorata, la consocenza assopita, l’intuito selvaggio che non ha parametri. Il virtuosismo dimesso di ciò che è palese ma al contempo inatteso, la realtà che si mostra così semplicemente bella nella sua imperfetta fatalità, da non apparire artefatta.
Ultimogenito del regista è “Miral”, tratto dal romanzo “La strada dei fiori di Miral”, della giornalista e scrittrice palestinese  Rula Jebreal. Una storia al femminile, ma di una femminilità mai scontata, intrisa del sapore della lotta, della politica e della coscienza della propria origine.
Nutrendoci di ciò che di più viscerale un’idea abbia da raccontare, assopiti nella monca ovvietà di una spettacolarizzazione spesso edonistica e falsamente filantropica, inchiniamoci alla passione multiforme. Idolatri della mancata convenzione e invidiosi dell’unico naviglio  in cui essa abbia deciso di scorrere, accontentiamoci di potercene cibare, e nutrire e dissetare. Davanti allo schermo. Astanti di fronte ad un suo quadro. In attesa di una nuova emozione, placando la nostra astinenza  con un’occhiata alla grazia che Schnabel non smette, timidamente, di offrirci.
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