La lunga corsa, di Andrea Magnani

A metà tra fiaba e strambo coming of age carcerario, si fa prendere la mano dalla delicatezza verso i personaggi e manca di robustezza narrativa ma ha una regia efficace. In Concorso al TFF

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Voglio tornare in carcere“. Il mantra di Giacinto (Adriano Tardiolo), protagonista della pellicola di Andrea Magnani – unico film italiano in Concorso al Torino Film Festival 2022 – nasce non da una delinquenziale voglia di essere primus inter pares all’interno del microcosmo penitenziario ma come obbligata necessità esistenziale. Il ragazzo è infatti nato dietro le sbarre, figlio di un padre ed una madre che lo hanno utilizzato rispettivamente prima come pedina di scambio per una fuga riuscita e poi come goffo complice per un’evasione sventata invece dalle guardie. Vissuto dentro le mura della prigione sotto la patria potestà esercitata dal secondino Jack (il bravissimo Giovanni Calcagno), Giacinto anche dopo il raggiungimento della maggiore età fa di tutto per rientrare dentro il carcere. Per lui il mondo dentro le mura dell’istituto penitenziario ha più possibilità d’affermazione di quello fuori, che da subito l’ha emarginato come un reietto. D’altronde, come riconosce lui stesso in un momento troppo didascalico: “Non c’è niente che sappia fare fuori“. Al giovane non resta allora che farsi assumere come guardia carceria, sotto la guida tenera ed allo stesso tempo rude del patrigno acquisito, e conciliare la necessità della libertà esterna con una gara podistica in cui mettere a frutto il suo insospettabile talento, nascosto molto bene dietro la sua pinguedine.

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Al suo secondo lungometraggio, Andrea Magnani conferma quanto di buono fatto col fortunato esordio Easy – Un viaggio facile facile ma allo stesso tempo rende così evidenti i limiti del suo cinema gentile e lieve. In questo La lunga corsa la volontà di confermare uno sguardo concentrato sull’aticipità di personaggi e situazioni gli lascia sfuggire le potenzialità di uno script che avrebbe meritato qualche radicalizzazione in più della sua assurdità. Più riuscito quando prova a strappare qualche risata (i corridori all’esterno del penitenziario che da Giacinto vengono scambiati per prigionieri in fuga) che a fare poesia visiva (la sigaretta fumata da Rocky al mare), il regista riesce ad evitare le secche delle storie di riscatto e di emarginazione sociale con un racconto che dietro alla sua stramberia quasi beckettiana manifesta in maniera riuscita il disagio di chi vive ogni giorno dentro il carcere. E i bei titoli di coda che scorrono sui casermoni degli “istituti circondariali” d’Italia, tutti uguali nel loro piattume estetico, segnalano la necessità di sognare, anche solo per 88 minuti, insieme a Giacinto di poter trovare lì dentro il proprio posto nel mondo senza nessuno stigma.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
1.71 (7 voti)
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