La metà del volto di Dio: Andrzej Żuławski

Ripubblichiamo il nostro profilo su Andrzej Żuławski, scritto in occasione dello scorso Festival di Locarno che aveva visto il grande cineasta (oggi scomparso) tornare alla regia con Cosmos.

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Dopo anni di silenzio, ma solo per chi lo aveva dimenticato forse, Andrzej Zulawski torna al cinema, sugli schermi di Locarno. Torna con un adattamento quasi impossibile a pensare Cosmos di Witold Gombrowicz, punta estrema e inarrivabile dell’opera di uno dei più grandi romanzieri del 900. Ma chi altro poteva cimentarsi in questa sfida impossibile?

 

La terza parte della notteI primi ricordi dell’autore sono i cadaveri che si ammassano lungo le strade sotto il suo balcone, l’inferno della Polonia occupata nel ‘43, la follia che prende il posto del quotidiano. Sono occhi di bambino che hanno visto troppi orrori, e una volta adulti tutto ciò che passa attraverso di essi può essere solo enorme, distorto, esagerato dolore. È già tutto nel suo primo lungometraggio, La terza parte della notte, tanto assurdo quanto reale, scritto insieme al padre poeta, sulle esperienze di guerra di quest’ultimo. Troppi pidocchi a dissanguare i polpacci, il veleno del tifo nel sangue, la vita come un perenne stato febbrile (ho voluto raccontare ciò nel mio primo film perché è da qui che vengo, dal sangue di mio padre avvelenato da pidocchi infetti). È già tutto qui, il connubio di amore e religione, entrambe le cose vissute in maniera estrema e idiota, a formare un impasto di saliva e sangue. La violenza di Zulawski non è solo visiva, ma anche nei temi scelti, che a dispetto della forma irruenta sono invece delineati con sapienza sottile. Se ne accorgono le autorità polacche, che censurano il suo secondo film Diabel per 17 anni e costringono il regista all’esilio in Francia, dove girerà gran parte dei suoi film successivi. Dopo il successo commerciale di L’importante è amare, il regista potrà tornare in patria, con la condizione ipocrita di girare un nuovo film in grado di incassare quanto il precedente. Per tutta risposta, Zulawski si dedica all’adattamento della Trilogia Lunare dello zio Jerzy Zulawski, quel Sul Globo d’Argento che sarà la vetta irraggiungibile, e in effetti mai raggiunta, del regista: fantascienza attraverso la filosofia, religione attraverso la bestemmia. Opera amputata dal governo stesso, che ne blocca la produzione e ordina la distruzione dei set e dei costumi,
sarà completata solo dieci anni dopo. Il finale del film, con il riflesso di Zulawski Sul globo d'argentostesso, mostrato nella sua impossibilità a terminare il lavoro, è un martirio più violento della crocifissione che lo precede. Nonostante tutta la filmografia di Zulawski viva di un’estetica che si è mantenuta coerente negli anni (le scale a chioccola ritornano sempre, come spirali a chiudersi intorno al collo) le opere girate in Francia, a eccezione di Possession, suo film più celebre per innumerevoli motivi, tra tutti l’interpretazione devastante di Isabelle Adjani, non sembrano possedere la stessa visceralità di quelle girate in patria, dove l’autore si immerge ben più volentieri in un abisso di abiezione e lordura, cosa che ripeterà solo nell’ultimo film girato in patria, Szamanka, che a dispetto della necrofilia che lo anima si rivela ben più vivo del successivo La Fidelité.

 

Ogni sua opera più che un film è un corpo che vive dello stesso sangue malato, scosso da convulsioni e visioni febbricitanti, colto da una torsione continua tra emozioni e concetti. Ma sono movimenti bruschi, corse frenetiche che distruggono ciò che è intorno. Tutto pur di non fermarsi, a costo di morire di corsa, o in corsa, per superare almeno per qualche attimo la fine con qualche passo incespicato prima di crollare. La mdp, in mano a Zulawski, non si fa solo occhio, ma sviluppa braccia e gambe, arti tentacolari che esplorano lo spazio, quasi che la macchina fosse un tumore che preme sulla fronte dei Possessionpersonaggi. Le numerose soggettive improvvise che sconvolgono sovente il flusso di immagini non si limitano a guardare, ma si scontrano con ciò che hanno davanti con forza d’ariete. Una messa in scena così violenta deve scontrarsi con la recitazione estrema degli attori (e soprattutto delle attrici: Isabelle Adjani, Malgorzata Braunek, Romy Schneider, Sophie Marceau), corpi che continuano a espellersi, a entrare e uscire da sé in un delirio sciamanico. Come insegna Grotowski, essi si danno in modo totale, nella propria intimità più profonda come ci si dà nell’atto d’amore (only in deathly overwhelming love do you realize who you really are). In questo caos biologico di corpi, stremati dalla loro ricerca d’amore o dell’altra metà del volto di Dio, Zulawski opera una violazione dell’organismo vivo, mentre cerca il punto giusto dove poter conficcare il chiodo (per poi accorgersi che è indifferente, perché tutto in questi corpi è dolore). Corpi che non osservano il mondo dall’altro ma ne vengono travolti, costretti a osservarlo da una distanza zero, in un caos furibondo e deformante.

 

Nonostante le recenti dichiarazioni del regista a non voler più trattare con “personaggi pervertiti e materiale ripugnante”, chi ha letto Cosmos saprà bene come esso sia tutt’altro che esente da queste categorie, benché la sua depravazione non sia tanto di carattere narrativo quanto squisitamente letterario. Ma dopotutto anche Zulawski non ha mai voluto dedicarsi alla trama, in favore delle sensazioni pure emanate dalla sua regia. Vista la sua ampia, e in Italia pressoché sconosciuta, produzione letteraria, con oltre una decina di libri pubblicati che si intrecciano ai suoi film, l’incontro con un autore come Gombrowicz, per molti aspetti vicino nei modi più impensabili alla sua poetica, sarà l’ideale celebrazione di un atteso ritorno.

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