La mia casa e i miei coinquilini – Il lungo viaggio di Joyce Lussu, di Marcella Piccinini

Il 24 gennaio scorso è stato proiettato, alla Camera dei Deputati, il documentario di Marcella Piccinini su Joyce Lussu. Film che trasmette, con montaggio “cerebrale”, l’idea di morte e rinascita

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Il discorso della memoria della Storia passata ha raggiunto oggigiorno una posizione di urgenza immane; discorso, per l’appunto, su fatti e situazioni che sono rimasti nel tempo intrisi di frammenti che si prolungano verso il presente e lo determinano in larga misura. Non c’è, dunque, attualità senza che avvenga anche una simultanea «passeggiata nel passato», sempre rinnovandone forme e caratteri, linguaggi e strutture, ma mantenendone saldo il senso profondo che vi si cela immutato. Il cinema – e l’arte tutta – può, all’occorrenza, diventare uno degli strumenti di tale operazione di scavo nel passato e, ancor più, di una sua rigenerazione: per non restare ingabbiati nel racconto sterile delle cose di un tempo, bensì per tessere ogni volta nuove trame, per incrociare differenti linguaggi, per ingenerare movimento laddove restava soltanto la staticità del ricordo.
Marcella Piccinini, dopo un passato da costumista e scenografa, nota per le sue collaborazioni con Marco Bellocchio (Sorelle Mai, 2010) e per una serie di cortometraggi di forte presa sul reale (La luna di Kiev, 2007, o Il Mondo Capovolto, 2011), su questa scia decide di avvicinare in modo del tutto originale una delle figure più rappresentative della rivolta antifascista d’Italia, e non solo: si tratta di Joyce Lussu, moglie e compagna di lotte di Emilio, che in questo documentario dal titolo La mia casa e i miei coinquilini (2016), proiettato il 24 gennaio scorso alla Camera dei Deputati, diventa centro propulsore di una narrazione di storia biografica e universale, fatta di parole e immagini collassate le une nelle altre, dove a emergere sarà non solamente il suo personaggio, bensì un’idea di rivolta – e di linea di fuga dal/contro il potere – che Lussu seppe trasmettere con forza per tutta la vita.
Nel film domina un bianco/nero carico di emozioni e ricordi, in particolare quelli privati che affiorano dagli oggetti e stanze della “poetica” casa dei Lussu a Fermo, dove la stessa Joyce venne intervistata da Bellocchio e Daniela Ceselli nel 1994, e della quale estratti si trovano disseminati nel documentario di Piccinini. La voice over (Maya Sansa) riattraversa con chiarezza, per il tramite di parole della stessa Joyce, la stagione di “Giustizia e Libertà”, il primo appuntamento con il leggendario Emilio Lussu, venuto da un’ancestrale Sardegna a sconquassare la sua esistenza attraverso un amore «profondo e totale»; e poi la vita, sempre un po’ nomade, della coppia a Parigi, la passione di Joyce per la casa, per i libri e le macchine da scrivere, fino all’invasione nazista e la fuga obbligata verso il sud, in direzione Marsiglia; e infine, gli ulteriori e rischiosi spostamenti di confine per buona parte d’Europa.

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Il racconto di vita di Joyce costituisce, tuttavia, soltanto un primo livello di narrazione per Piccinini, che lo restituisce, per l’appunto, in fuori campo e lo nobilita attraverso il diretto collegamento con immagini d’archivio dell’epoca rievocata; ma a queste ultime – dalla Parigi sotto assedio alla Sardegna delle donne emarginate, per arrivare ai dettagli intimi delle case dove i Lussi abitarono e agli sguardi sulla Turchia dell’amico Nazim Hikmet, della cui “poesia utile” ella divenne appassionata traduttrice – si aggiungono fotografie e riprese ad hoc realizzate dalla regista.

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Un incredibile lavoro di montaggio (anche sonoro) conduce il documentario verso un terzo e ultimo livello, quasi “cerebrale” – nel senso più ejzenštejniano del termine –, dove a immagini di città e popolazioni, di tratti e attimi fugaci di vita comune, si aggiungono insetti e animali della terra, carcasse e cibo in avaria, che restituiscono – in modo forse un po’ stucchevole – l’idea di fondo di un mondo dalla connotazione fortemente organica, ma in evidente stato di cancrena. Vedremo sempre un treno che corre sulle rotaie, indice di viaggio, o meglio di fuga incessante tra fronti e frontiere; un puzzle di formati e colori che cercano un contatto con la parola in fuori campo; lo scontro “intellettuale” tra le testimonianze della guerra e la pace quasi bucolica e atemporale emanata dalla casa di Fermo; infine, simboli di vita e di morte che si danno il cambio in un “montaggio parallelo” dal sapore forte di rovina, ma poi anche di lotta e rinascita nella casa del mondo.
Il film di Piccinini resta sospeso tra le maglie del tempo, cercando un appiglio nella figura di Joyce Lussu, ma poi in fondo trovandolo solo nel circuito di immagini che lo costruisce e decostruisce dall’interno. Il film ripiega dunque su di sé, e in quella strana attitudine che è «la capacità di fare poesia di tutto».

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