La passion de Dodin Bouffant, di Tran Anh Hung

A prima vista, sembra uno sfoggio di un’eleganza un po’ esornativa. Ma Tran Ahn Hung riesce a raccontare la passione e la cura, ad accarezzare i personaggi e a trovare un’armonia profonda. Concorso

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Dodin Bouffant è il Napoleone della gastronomia, un gourmet geniale, profondo conoscitore delle tradizioni della cucina francese e sperimentatore instancabile. Ad accompagnarlo nella realizzazione dei suoi menù, da vent’anni c’è la sua cuoca sopraffina, Eugénie. Ed è tutto un gioco sapiente di equilibri tra gli ingredienti, le caratteristiche dei prodotti, tra i sapori e gli aromi, le tecniche. Ma tra i due c’è anche un sentimento che va al di là della cucina e del rapporto di servizio, un amore vissuto anch’esso in equilibrio, tra il desidero e l’eleganza dei modi, la cura e i pudori.

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È strano parlare di questo film di Tran Anh Hung, ispirato a un romanzo di Marcell Raouff, La vie et la passion de Dodin-Bouffant, gourmet. Perché a prima vista, verrebbe da pensare che stiamo assistendo allo sfoggio di un’eleganza un po’ esornativa. Gran parte del film è dedicata alla preparazione delle mirabolanti ricette dei due protagonisti, che vanno dalla complessità estrema alla semplicità più quotidiana: consommé, arrosti, bolliti, dolci miracolosi, “ordinarie” omelette. E l’amabile e raffinata conversazione che intrattengono i personaggi, Eugénie e Dodin, i compagni abituali di banchetto di Bouffant, è per lo più incentrata sui segreti e le storie della cucina. Dal commento acuto dei piatti alla celebrazione dei vini che vi si accompagnano, dai ricordi legati al tempo dei papi ad Avignone all’esaltazione del genio di Antonin Carême, il padre dell’haute cuisine, e di Auguste Escoffier, il grande cuoco, scrittore e divulgatore. Ma c’è pure un evidente piacere nel filmare il cibo, la materia prima, la cura meticolosa della preparazione. Una capacità di restituire una sensazione viva, concreta, quasi tattile, sensoriale. E di mettere in mostra una passione, l’arte di una tecnica, la responsabilità e il desiderio di una trasmissione di conoscenze (che trova nella piccola e dotatissima Pauline una discepola perfetta, severa ed entusiasta).

Ma al di là delle gioie gastronomiche, Tran Anh Hung riesce a disegnare un affascinante ritratto d’epoca, lavorando, quasi senza farsene accorgere, tutto un immaginario da fine ‘800, legato alla letteratura, alla pittura, all’innovazione tecnologica (le antenne di zinco che stimolano elettricamente la crescita degli ortaggi…). Con un movimento continuo apre gli spazi della cucina, vero fulcro di tutto il film, e della casa di Dodin, in un passaggio fluido da un piano all’altro. E poi si affaccia all’esterno, alle dolcezze della campagna, colta con una sensibilità alla luce quasi impressionista. Trova un ritmo discreto grazie a Juliette Binoche e un Benoit Magimel di metodo e passione e riesce così ad accarezzare i personaggi, a raccontarne in punta di piedi sentimenti e relazioni. E il dramma, che getta un’ombra profondamente malinconica su questa specie di paradiso gastronomico, non assume mai la dimensione di una tragedia. Fa parte delle cose, come lo scorrere delle stagioni, come il ritmo della terra, la rugiada che si dissolve al calore del sole e le foglie morte. Alla fine, con un movimento circolare, l’armonia è ristabilita. Un film che sarebbe piaciuto a Renoir, probabilmente.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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