La pazza gioia, di Paolo Virzì

Come le sue due strabordanti protagoniste, evita il pietismo o il risvolto puramente sociale per imporre il suo lavoro come opera orgogliosamente bipolare.

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Nel cinema di Paolo Virzì, la Toscana (quella periferica delle fabbriche di Piombino, del lungomare di Forte dei Marmi, dei quartieri popolari di Livorno) è sempre stata la terra perfetta per le sue favole reali, il luogo dove le sue storie trovano un respiro concreto e caldo. Non è un caso che, dopo l’esperimento noir brianzolo de Il capitale umano, un’opera completamente costruita sulla fredda disperazione e sul calcolo narrativo, il regista livornese ritorni a casa per ritrovare i buoni sentimenti “familiari” e la sua musa Micaela Ramazzotti. La pazza gioia, dunque, segue le disavventure tragicomiche di una coppia improbabile formata da Beatrice, donna borghese esiliata nella casa di cura dopo aver quasi portato alla bancarotta il marito, e Donatella, ragazza madre a cui hanno tolto il figlio dopo un “incidente”.

Virzì, come le sue due strabordanti protagoniste, evita il pietismo o il risvolto puramente sociale per imporre il suo lavoro come opera, orgogliosamente bipolare. Il film, infatti, vive con tranquillità il suo essere costantemente scisso tra contraddizioni e divisioni nette. E’ commedia on the road e melodramma puro, ha una prima parte introduttiva poco coinvolgente e una seconda, invece, emotivamente straziante, la sua sceneggiatura rimbalza tra battute scontate (c’è ancora il bisogno di scherzare su Berlusconi?) e piccoli gesti o sguardi  che fanno vacillare (l’incredibile scena sulla spiaggia) e l’ambientazione si divide tra una casa di cura campagnola eccessivamente tranquilla e lo squallore algido degli ospedali psichiatici (qui si vede l’intervento concreto di Francesca Archibugi). Persino tra le due protagoniste, l’eccessiva e irrefrenabile Valeria Bruni Tedeschi, sempre sopra le righe, e una Micaela Ramazzotti impostata sul dolore, la sottrazione e la mortificazione della propria bellezza, si riconosce questa polarizzazione. Virzì, dunque, con una confezione ultra-colorata che guarda al cinema francese, desidera raccontare una storia che si muova tra la folle gioia e il lancinante dolore delle sue due donne, sempre in balia di alti e di bassi, di up e di down.

valeria bruni tedeschi micaela ramazzotti la pazza gioia

Il film è quindi una pura manifestazione di tutte le direttrici e di tutti i meccanismi del cinema di Virzi. La sua encomiabile capacità di raccontare sentimenti assoluti, emozioni nitide, sono punti di forza oggettivamente efficaci nel colpire al cuore il pubblico (le lacrime si sprecheranno nel pubblico per il finale). Purtroppo, il regista, pellicola dopo pellicola, trasforma la sua poetica in un manierismo gentile/comico che, eccetto il lavoro (riuscito?) de Il Capitale Umano, riconferma la formula base su cui sono costruite tutti i suoi lavori. Il personaggio estremo della Bruni Tedeschi, ad esempio, almeno nella sua superficie, nasce come una satira stanca di certa borghese di destra che porta il film a deragliare, schiacciato dalla sua magnifica presenza.

E’ ancora una volta la Ramazzotti, mai cosi efficace come nelle mani del marito regista, a rompere gli schemi da Commedia all’italiana post-mortem, trascinando La pazza gioia in altri territori. Magnifica nei duetti con i suoi genitori folli, i cammei brevissimi di Anna Galiena e Marco Messeri, l’attrice ci culla e si fa cullare sulle note di Gino Paoli, avvolgendo e sublimando il film nel suo splendido dolore di madre, stravolta da un passato angosciante ma disposta a tutto pur di rivedere, anche solo per un istante, il suo bambino (irrimediabilmente?) perduto.

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Regia: Paolo Virzì

Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti, Anna Galiena, Marco Messeri, Tommaso Ragno

Distribuzione: 01 Distribution

Durata: 116′

Origine: Italia 2016

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