La pelle dura di Palance

Il grande attore americano è scomparso il 10 novembre scorso. Oltre quarant'anni di carriera, attraversati da Palance col suo volto sfigurato, spigoloso, con l'aria da cattivo e il cuore da duro

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Boys don't cry…i ragazzi, quelli duri e cattivi, non piangono. La loro anima è passata attraverso l'inferno e la loro pelle si fa dura, di "cuoio". E quando arrivano ad affrontare la morte, se ne vanno a testa alta, senza clamore o tragedie.  Anche Jack Palance, uno degli ultimi "duri" di Hollywood, se n'è andato. Al secolo Volodymir Ivanovich Palahniuk (americanizzato Walter J.), nasce a Lattimer Mines in Pennsylvania il 18 febbraio del 1919, da una famiglia d'immigrati ucraini. ll padre è minatore e muore per una malattia polmonare contratta sul lavoro. Anche per il giovane Palahniuk le prospettive sono quelle  della fatica e del sudore, della lotta quotidiana per l'esistenza. Dopo qualche anno passato in miniera, decide di cambiare vita e dedicarsi allo sport. Dapprima ci prova con il football, alla University of North Carolina. Poi, facendo leva sulla sua prestanza fisica, tenta la via del pugilato professionistico. Categoria pesi massimi, ancora fatica e sudore, lividi e sangue. Intanto gli Stati Uniti intervengono nel secondo conflitto mondiale e Jack è arruolato nell'aeronautica. Ma il destino è sempre in agguato. Durante un volo d'addestramento, l'aereo precipita e Palance rimane sfigurato. Si sottopone a numerosi interventi chirurgici, ma il suo volto rimarrà segnato per sempre, spigoloso, irregolare, lineamenti duri, sofferti. Una "faccia di cuoio", come verrà definito, una maschera che è cifra di una vita difficile, avventurosa e tormentata. Conclusa la guerra, altre svariate esperienze, tra cui il giornalismo sportivo. Ma la vera vocazione di Palance è quella della recitazione. S'iscrive all'Actors Studio, cambia nome e, sotto la guida di Elia Kazan, inizia a lavorare a teatro. La grande occasione è Un tram che si chiama desiderio: Palance sostituisce Marlon Brando nel ruolo di Stanley Kowalski e ha l'opportunità di farsi notare con un'interpretazione sofferta, ma controllata, mai istrionica.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

L'esordio al cinema avviene ancora una volta grazie a Kazan in Panic in the Streets (Bandiera gialla, 1950), un potente e atipico noir ambientato a New Orleans. Seguono alcune parti, per lo più di contorno, in vari film tra cui Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens, Duello sulla Sierra Madre (1954) di Rudolph Maté e Mano nell'ombra, interessante remake di The Lodger (1954) di Hitchcock, firmato da Hugo Fregonese. Si tratta per lo più di western, noir, film bellici in cui Palance interpreta ruoli da cattivo, da fuorilegge. Sembra una maledizione: quel suo fisico atletico e quel suo volto minaccioso rischiano d'imprigionarlo nel clichè del villain. Ma il grande Robert Aldrich si rende conto delle potenzialità drammatiche dell'attore e lo sceglie come protagonista del bellissimo The Big Knife (Il grande coltello, 1955), film-accusa sul mondo di Hollywood e lo strapotere degli studios. Nella parte di un attore dedito all'alcool e minacciato da un cinico produttore, Palance mostra la sua grandezza. Il suo volto e la sua recitazione sembrano perfetti per il cinema di Aldrich, percorso da tensioni anarchiche e da una violenza sempre sul punto di esplodere. Il regista dichiarerà in seguito: "Mi è stata rimproverata la scelta di Palance…avevo bisogno di un attore tormentato, e Jack Palance, che è un tipo impossibile da sopportare ma anche un grande attore, era perfetto per la parte". E in effetti, al di là della tecnica assimilata, quello che colpisce della recitazione di Palance è la capacità di far trasparire il vissuto, l'esperienza di un passato difficile. Più che di immedesimazione alla Strasberg, si tratta della capacità di far emergere la verità dell'uomo attraverso la maschera del personaggio. Una qualità che accomuna Palance a Robert Mitchum, l'altro grande drop out del cinema americano di quegli anni.

La collaborazione con Aldrich continua con il film bellico Attack! (Prima linea, 1956). E nel presentare il personaggio del tenente Costa, il regista scrive al suo attore: "Per tutta la vita, dalle miniere di carbone in poi, ha dovuto lottare con le unghie e con i denti per ogni straccio di opportunità abbia mai avuto…è la prospettiva sociologica di un ribelle anticonformista, che rifiuta sempre di accettare le cose per quello che sono realmente, e a modo suo vuole vivere in un mondo in cui le cose sono come dovrebbero essere". Parole che sembrano scritte apposta per Palance, che qualche anno dopo, sempre diretto da Aldrich, interpreta il soldato tedesco Körtner in Ten second to Hell (Dieci secondi col diavolo, 1959), film ambientato nella Germania postbellica. Negli anni '60 Palance continua la sua carriera cercando di tenersi a distanza dai grandi studios hollywoodiani, compare in numerosi film (non tutti da ricordare) ed è diretto anche da grandi registi americani che europei. Da Abel Gance (Napoleone ad Austerlitz, 1960) a Vittorio De Sica (Il giudizio universale, 1961), da Jean-Luc Godard (Il disprezzo, 1963, dove veste i panni di un laido produttore, un ulteriore tassello alla sua fama di "cattivo) a Richard Brooks (I professionisti, 1966), da Richard Fleischer (Che!, in cui addirittura impersona Fidel Castro) a Jess Franco (Justine ovvero le disavventure della virtù, 1969).

Gli anni '70 vedono Palance impegnato, oltre che in TV, in numerosi film per lo più di genere, al di fuori dei circuiti del cinema "d'autore". E' soprattutto in Italia che Palance riesce a lavorare: grazie alla sua maschera, viene utilizzato da Umberto Lenzi (La legione dei dannati), Sergio Corbucci (il fortunato Vamos a matar compañeros), Enzo G. Castellari (Tedeum), Michele Lupo (Africa Express), sino ad arrivare al folgorante I padroni della città di Fernando di Leo, dove con grande autoironia interpreta la parte del boss Sfregiato. Negli anni '80 qualche ruolo minore, apparizioni in Bagdad Café di Percy Adlon, in  Batman di Tim Burton e Tango & Cash di Andrej Končalovskij. Sembra comunque un lento, ma inarrestabile declino. Finché il riconoscimento tanto, troppo a lungo aspettato. E' il 1991 quando esce Scappo dalla città – La vita, l'amore e le vacche, per la regia di Ron Underwood. Palance, con la solita durezza autoironica, quel piglio solo apparentemente burbero, è il cowboy "guida" di tre quarantenni in fuga dallo stress cittadino. Il suo personaggio è il residuo di un'altra epoca, quella in cui gli uomini erano ancora uomini. Una sorta di autobiografia che frutta a Palance (alla terza nomination dopo quelle per So che mi ucciderai e Il cavaliere della valle solitaria) l'Oscar come migliore attore non protagonista. E' l'ultimo vero sussulto di gloria, a cui segue qualche parte minore. Il tempo della lotta è ormai finito. I duri possono smettere di combattere.  

--------------------------------------------------------------
CORSO COLOR CORRECTION con DA VINCI, DAL 5 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative