La pistola giocattolo di Seijun Suzuki

Quella del gioco sembra una delle chiavi del cinema di Suzuki: reinventare le regole dell’immagine e riammettere in campo l’improbabile e l’insensato. Un ricordo del regista scomparso il 13 febbraio

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– Hai ucciso la persona sbagliata.

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Un errore fatale, sei finito.

Sei fuori dal giro, manderanno qualcuno ad ucciderti.

– Lo so, questa è la regola.

 

tokyo drifterQuesto scambio di battute tra Goro Hanada e Misako segue il momento “decisivo”de La farfalla sul mirino (Koroshi no rakuin) e sembra già presagire il destino di Seijun Suzuki. Che attende la condanna dopo aver attentato al rigore della forma e ai codici di legge. 1967. Già un anno prima,Suzuki aveva azzardato un po’ troppo con quei gialli, quei blu e quei rossi che incendiavano le derive di Tokyo Drifter. E la Nikkatsu, la “gloriosa” casa di produzione per cui aveva fatto, fino ad allora, tutto il “lavoro sporco”(del killer), lo aveva richiamato all’ordine di un più morigerato bianco e nero. Ma ora la sfida è totale: una storia che si sfalda in un incomprensibile questione di primati tra assassini, tra impennate di violenza, stilizzazioni raggelanti, ironie dissacranti e agitazioni disperate. La farfalla sul mirino è un flop, che scatena definitivamente le ire di Kyusaku Hori, il boss della Nikkatsu, che accusa il film di incomprensibilità e sancisce il licenziamento di Suzuki, auspicando la fine della sua carriera di regista. “Gli consiglio di aprirsi un negozio di noodles”, dichiara, quasi anticipando di quaranta anni il soggetto del vertiginoso Tachiguishi retsuden di Mamoru Oshii, quel Le straordinarie vite dei maestri scroccatori di Fast Food, che nell’irrefrenabile e irriverente girandola di invenzioni, tanto sembra guardare al cinema di Suzuki.

 

operetta tanuki gotenComunque, dopo il licenziamento, c’è tutto un montare di proteste: si mobilitano i registi, si agitano gli studenti, mentre la contestazione scuote la politica e la società giapponese. Suzuki intenta causa alla Nikkatsu e la spunterà solo nel 1971, con un cospicuo risarcimento danni. Ma comunque resterà fuori dal cinema per oltre un decennio, barcamenandosi tra la TV e brevi apparizioni nei film degli altri. Questa è la regola… l’industria vuole solo i creativi che funzionano, quelli che sparano dritto e non mancano il bersaglio. E le regole Suzuki le conosceva bene, visto che dal ’56 aveva lavorato per la Nikkatsu a ritmi infernali. Sempre ricercando un’originalità che desse nuova vita alle forme, ma mai uscendo dai limiti della leggibilità. Era un professionista.

 

suzukiSempre Goro e Misako, nel dialogo dell’incarico, poco prima dell’errore fatale: “Gli camminerò accanto per 3 secondi. – Non so di che parli. – Hai solo tre secondi. Io mi sposterò. Per due decimi di secondo avrai il suo cuore nel mirino. – È una diavoleria! – Tu sei un diavolo, no? – Si può fare, ma un professionista sceglie metodi più sicuri. – Non c’è altro modo”. Già, un professionista sceglie metodi più sicuri. Ma Suzuki sa bene che non c’è altro modo per accordare i film al desiderio o alla necessità. E sceglie di infischiarsene delle convenzioni e degli stereotipi del genere yakuza, per inventare, a modo suo, la modernità. Ma non dal punto di vista delle situazioni o dei temi. E neppure dei personaggi, seppur, nella meccanica delle traiettorie narrative, vengano sottoposti a una pressione deformante, caricaturale – e quindi, in questo senso, potremmo benissimo rientrare in una disincantata ironia “moderna” o meglio “post-”, come piace dire agli amanti delle formule. La questione, per Suzuki, non è attentare alla trama, che, in fondo, è sempre un colabrodo e deve fare i conti con i buchi tra un punto e una croce, con la tenuta precaria dell’ordito, qualunque esso sia. A saltare è la leggibilità stessa dell’azione, delle traiettorie di movimento, dei rapporti spaziali, dei legami consequenziali tra le cause e gli effetti. Perché all’interno di ogni scena ci sono cesure, tagli, ellissi, vere e proprie sincopi che elidono “lettere”, quindi fotogrammi, interi blocchi di immagini, mandando all’aria le giunture e le interpunzioni. Intervengono mancanze, per quel paradosso del cinema per cui è il vuoto a contenere e rivelare la sostanza. Il tempo è contratto, un contratto: due decimi di secondo, con il cuore sul mirino, significano ridurre a un attimo l’intervallo tra la preparazione e il gesto, la messa in quadro e la ripresa. Accettando di fatto la possibilità che una farfalla si posi sulla linea dello sguardo, storcendo la mira e nascondendo il bersaglio.

 

pistol operaA partire almeno da Tokyo Drifter, i film di Suzuki provano sempre a tenersi in equilibrio tra le acrobazie dei jump cut e i capitomboli nell’insensatezza dei raccordi sbagliati. Ma soprattutto tra l’urgenza del fare cinema e la logica del senso. Vivono una contraddizione tra i vagabondaggi e i movimenti jazz, che sono in linea con le pratiche della modernità, nouvelle vague o nuberu bagu, e quelle tendenze alla stilizzazione, che riportano ai movimenti ritualizzati e alle astrazioni delle forme d’espressione giapponese, quelle della figurazione bidimensionale o quelle da opera o da operetta kabuki. Ci si muove lungo una duplice traiettoria, su due tempi contraddittori, quelli della modernità e della tradizione, della velocità e del codice (d’onore). Ed è una deflagrazione, quasi uno spiazzamento dada praticato sul già visto, già fatto. Sono tutte linee divergenti e paradossi, proprio come se fossimo in presenza degli scioglilingua e dei giochi di parole di Lewis Carroll. E del resto quella di Alice è una presenza chiamata in causa direttamente in Pistol Opera (2001), dove si canta dell’Humpty Dumpty e si spara “attraverso” lo specchio, secondo dinamiche di rifrazione e infrazione del senso. Chi spara e a cosa? Chi a cosa? Cosa chi? Questa del gioco sembra davvero una delle chiavi del cinema di Suzuki: lavorare sul piano della superficie, inventando, di volta in volta, le regole di composizione dell’immagine tra le scenografie, i colori, le disposizioni spaziali, le traiettorie dinamiche e riammettere così in campo l’assurdo, l’inverosimile, l’eccezionale. La curva spezzata che torna dritta o viceversa. Sparare mirando da uno specchietto o sparare attraverso le tubature di un lavandino significherebbe, di fatto, sparare a vuoto, mancare l’obiettivo. Ma per Suzuki il cinema serve proprio a questa utopia: a dare una possibilità all’improbabile e a scoprire la libertà dell’insensato.

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