#Cannes75 – La prigione dorata

L’edizione del ritorno, della riaffermazione di un primato di prestigio. Grandi numeri, ma una sottile sensazione di stanchezza. Eppure, le visioni esaltanti non sono mancate

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Dopo l’annullamento del 2020 e il ridotto estivo dell’anno scorso, era ovvio che il Festival di Cannes puntasse a tornare alla grande. E per questo ha messo in campo tutta la sua potenza di fuoco, con un’edizione imponente. Ventuno film in concorso, alcuni dei quali aggiunti in corsa, a pochi giorni dall’inizio. Quasi cento titoli in selezione ufficiale, tra Un Certain Regard, anteprime, proiezioni speciali, fuori concorso, classici restaurati, Cinefondation… Vecchi maestri e giovani già laureati, glamour, impegno politico, le star di Hollywood, a cominciare da Tom Cruise, celebrato per il suo ritorno muscolare alle acrobazie aeree di Top Gun. E una specie di sottotrama musicale come leitmotiv, dal travolgente Elvis di Buz Luhrmann, di nuovo sulla pista da ballo dopo nove anni da Il grande Gatsby, al documentario su Jerry Lee Lewis di Ethan Coen, corretto ma canonico, fino al ben più complesso lavoro di Brett Morgen su David Bowie, Moonage Daydream. A tutto ciò, naturalmente, vanno aggiunti i film della Semaine de la Critique e della Quinzaine des rèalisateurs, nell’ultimo anno, per ora, del delegato Paolo Moretti. E la più nascosta selezione di ACID. Numeri importanti, insomma. Che evidenziano la chiara intenzione di riaffermare un primato di prestigio nel panorama dei grandi eventi internazionali. Una posizione centrale rispetto a qualsiasi discorso cinematografico e, ancor più in generale, al flusso intricato degli avvenimenti. Con l’impegno in prima linea a favore della causa Ucraina. Già espresso con la decisione di escludere in partenza le selezioni ufficiali russe, fatte salve le voci dissidenti (come Kirill Serebrennikov che con Tchaikosvky’s Wife racconta le ombre di una delle glorie nazionali). E ufficializzato definitivamente con il collegamento alla serata inaugurale di Voldymyr Zelens’kyj, ennesima sortita pubblica del presidente ucraino in contesti quanto meno discutibili, sul solco di una strategia ben precisa di spettacolarizzazione delle ragioni della guerra. In qualche modo una specie di anticipazione e conferma del nuovo film d’archivio di Sergei Loznitsa, che, con The Natural History of Destruction, continua il suo discorso sulla Storia, sui grovigli, le tragedie e le devastazioni. Ma soprattutto sull’apparato retorico che fonda qualsiasi narrazione.

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Sì, c’è stata una grande risposta da parte delle delegazioni, degli addetti ai lavori, degli appassionati, dei semplici curiosi tornati ad affollare lo spettacolo della montée de marches sul tappeto rosso del Palais, con il suo codice imbalsamato, sempre più fuori tempo, delle invitations e degli abiti da sera. Con la netta sensazione di un ritorno a una normalità pre-Covid, quasi esibita nei distanziamenti azzerati, nella scomparsa delle mascherine, nonostante gli inviti d’obbligo alla cautela e la resistenza psicologica di alcuni (specialmente gli italiani, va detto). Unico vero cambiamento il sistema di prenotazioni online, che, nonostante le catastrofi dei primi giorni, ha reso gli accessi e i flussi meno caotici rispetto al passato, grazie anche una più elastica e rapida gestione dei servizi di sicurezza. Eppure al di là di tutto, al di là degli entusiasmi, della gioia dei ritorni, resta, di questi giorni, una sottile sensazione di appannamento e di stanchezza. Forse dovuta, a occhio, da una leggera flessione delle presenze rispetto alle ultime stagioni pre-pandemia. Ma, ancor più, dall’impossibilità di rintracciare un minimo ragionamento sulle trasformazioni delle dinamiche di produzione e consumo delle immagini. In questo senso, Festival di Cannes, con la sua sacralità e le sue regole devozionali, è la punta estrema di un irrigidimento degli eventi cinematografici, di un’incapacità a ripensare forme, pratiche, modi di fruizione. Basterebbe citare un paio di episodi. L’introduzione della proiezione ufficiale di Esterno Notte, con Thierry Fremaux che si premura di presentare il nuovo lavoro Bellocchio come “un film per la TV” e non una pura e semplice serie televisiva. Ribadendo implicitamente criteri di distinzione ormai inutili. E ancor più le polemiche sul nuovo concorso TikTok, con il ritiro, a poche ore dall’apertura, del presidente di giuria Rithy Panh, per mancanza di libertà ed eccessive ingerenze. Le dimissioni sono rientrate poco dopo, ma hanno lasciato comunque la sgradevole sensazione di un’imposizione di vecchi modelli e logiche di potere, anche rispetto a quelli che dovrebbero essere i terreni di coltura di nuove forme espressive. Alla fine della giostra, comunque, ciò che conta sono i film. O meglio ciò che resta in circolo, nella testa, negli occhi, nel cuore, dopo la lunga processione di immagini. Idee, intuizioni, le strade tracciate dalle visioni. Cosa diversa dai premi, che, come spesso accade, hanno seguito una logica oscura di equilibri distanti dalle percezioni reali del pubblico e degli appassionati. Con la seconda, forzata Palma d’oro a Ruben Östlund e alla cinica freddezza del suo cinema manifesto. Con, addirittura, due ex aequo, segno di una strategia di compromesso molto “democristiana”. Il Premio della Giuria all’affascinante, ma discontinuo EO di Jerzy Skolimowski e a Le otto montagne di Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen. E il Grand Prix all’innocuo Close di Lukas Dhont e al contorto Stars at Noon di Claire Denis, salvata probabilmente dal tributo di amicizia del presidente di giuria Vincent Lindon.

Ma al di là dei riconoscimenti e a dispetto delle solite lamentele degli insoddisfatti per professione, va detto che è stato un’ottima edizione. Sì, si può parlare di un concorso senza grandi rischi e colpi di testa. Si possono riconoscere alcuni segni di involuzione, come nel caso del film di Claire Denis e di Tori e Lokita dei Dardenne.

O addirittura delusioni, tracce di passaggi interlocutori, come Frère et soeur di Arnaud Desplechin, sempre più ossessionato dalla velocità, fin quasi alla confusione. Così, come colpisce l’assoluta assenza di alcune cinematografie fondamentali, come quella cinese, a riprova di come lo sguardo dei grandi festival sull’Estremo Oriente stia diventando sempre più parziale. Eppure i momenti importanti sono stati tanti. Da Crimes of the Future di Cronenberg, una rilettura quasi ironica dei temi centrali di una filmografia profetica, alle tensioni politiche dei piani sequenza corali di R.M.N. di Mungiu. Dalle apocalissi “pacifiche” di Albert Serra ai cuori sempre aperti di Kore-eda. E poi le tracce di Balzac in Un petit frère di Leonor Serraille, che racconta le dinamiche di sangue di una famiglia di immigrati ivoriani in Francia. Ma anche i conflitti di Leila’s Brother di Saeed Roustee, la sincerità viscerale di Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi. Fino a Nostalgia di Martone, ennesimo capitolo di un’esplorazione personalissima nelle curvature dello spaziotempo, fin dentro gli angoli misteriosi di una Napoli dai mille occhi. Un film che si muove tra teatri di guerra e fantasie di speranza, cupezza e poesia, che racconta il tradimento dei ricordi e la solitudine delle vite al tramonto, incapaci di comprendere le trasformazioni.

Ancora altrove, in ordine sparso, gli arabeschi narrativi di Three Thousand Years of Longing di George Miller, il bellissimo omaggio di Ethan Hawke a Paul Newman e Joanne Woodward, con due puntate della serie documentaria HBO The Last Movie Stars. La poetica presa diretta sul Cile di Patricio Guzmán, la sorprendente variazione poliziesca de L’innocent di Louis Garrel, esilarante gioco di ruolo e di attori. Alla Quinzaine, le geometrie misteriose e gli echi della natura di Men di Alex Garland, il gioco irriverente dei corpi di Fogo-Fátuo di João Pedro Rodrigues. E poi, i grandi classici, da La maman et la putain di Eustache all’inquieto Pratidwandi di Satyajit Ray.

Infine, tre film che hanno segnato nel profondo la nostra esperienza. Esterno Notte di Bellocchio che, con buona pace delle incomprensioni e delle polemiche, affonda negli abissi bui della storia e li riporta alla luce con la potenza assoluta di un cinema di invenzioni. Armageddon Time di James Gray, all’apparenza il suo film più piccolo ed equilibrato, che, però ci obbliga nuovamente a fare i conti con le rimozioni, i sentimenti più silenziosi e dolorosi. Lasciando una voragine infinita nei cuori. E, poi naturalmente Elvis, esaltante trionfo di immagini che inseguono ritmi, vibrazioni sonore, movimenti di bacino, evoluzioni dell’anima, passioni e catastrofi. Più che un film, un’enorme performance, come un unico infinito piano sequenza. L’anima negra del rock, la canzone come svelamento della verità interiore. E un grande personaggio che tutti si sforzano di ingabbiare nei limiti di un marchio e di un’icona. Come un King Kong rinchiuso nel castello dorato di Graceland (quasi la Xanadu di Citizen Kane), nello splendore lucente e artificiale dei palchi di Las Vegas. Incontenibile. Se è pericoloso parlare, canta…

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