La programmazione di Fuori Orario dal 12 al 18 gennaio

Nella morsa tra Carpenter e Skolimowski, Ozu e Fellini (nel corso del tempo) in versione restaurata e stranieri nella propria terra come Saleh e Suleiman. Da stanotte.

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Domenica 12 gennaio dalle 2.30 alle 6.00

Fuori Orario cose (mai) viste                                                   

di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

NELLA MORSA

a cura di Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

THE WARD

(Id., Usa, 2010, col., dur., 85′ v.o. sott., it.)

Regia: John Carpenter

Con: Amber Heard, Mamie Gummer, Danielle Panabaker, Laura-Leigh, Lyndy Fonseca, Jared Harris, Mika Boorem, Sydney Sweeney

Presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, The Ward è, ad oggi, l’ultimo film diretto da uno dei cineasti più geniali e influenti degli ultimi cinquant’anni.

Kristen, una bella e problematica ragazza, si ritrova rinchiusa nel reparto di un ospedale psichiatrico dopo avere incendiato una fattoria, coperta di lividi e tagli senza alcun ricordo degli eventi precedenti il suo ricovero. Nessuno riesce a fornirle risposte, e ben presto Kristen si rende conto che il reparto nasconde terrificanti segreti. Quando le altre ragazze iniziano a sparire una a una, Kristen cerca disperatamente un modo per fuggire, ritrovandosi più volte faccia a faccia con un essere misterioso e orripilante che la bracca apparentemente senza motivo.

“È stata una sfida, perché bisognava rendere ad ogni ripresa il set interessante, il che è difficile da fare. Era un set minuscolo, davvero, e c’erano solo poche stanze in cui si svolgevano le scene. Quindi, mi sono chiesto: “Come posso rendere tutto questo puramente visuale?”. (C. Radish, Director John Carpenter Talks The Ward and His Thoughts on Hollywood Remaking His Films, Collider, June 2011)

11 MINUTI

(11 Minut, Polonia-Irlanda 2015, col.,  dur., 79’, v. o. sott., it.)

Regia: Jerzy Skolimowski

Con: Richard Dormer, Paulina Chapko, Agata Buzek, JanNowicki, Dawid Ogrodnik, Andrzej Chyra, Piotr Glowacki, Wojciek Mecwaldowski

Il grande maestro polacco Jerzy Skolimowski racconta e moltiplica con un montaggio apocalittico e cubista gli stessi undici minuti vissuti da personaggi differenti in parallelo. Un film dai tratti profetici che già allora Skolimowski spiegava così: «Camminiamo verso il bordo dell’abisso tra ordine e caos. Dietro ogni angolo si nasconde l’imprevisto, l’inimmaginabile. Niente è certo – il prossimo giorno, la prossima ora, o anche il prossimo minuto. Tutto potrebbe finire all’improvviso, nel modo meno atteso».

«“Un reticolo di vita urbana, con tanti personaggi che vivono in un mondo instabile, dove tutto può succedere in ogni momento. Un’inaspettata concatenazione di eventi  – a effetto domino – può segnare tanti destini in appena undici minuti. È stato uno scherzo matematico, o potrei dire che c’è stata una certa precisione nel coordinare gli episodi. Una volta che ho deciso che avrei raccontato una storia che si svolgeva in un arco di tempo molo limitato, 11 minuti, sapevo che alcune di queste storie si potevano interconnettere facendo così capire al pubblico che succedono simultaneamente (…). Nel film do alcuni segnali che qualcosa di terribile sta per accadere, ma credo di essere riuscito a guidare il pubblico a muoversi istintivamente. Non dovevano sapere quello che sarebbe successo esattamente, ma in un certo senso avere la sensazione quasi di un thriller». (Jerzy Skolimowski)

 

Venerdì 17 gennaio dalle 1.40 alle 6.00

Fuori Orario cose (mai) viste                                               

di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

CINEMA STRANIERO IN TERRA PROPRIA

a cura di Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito, Roberto Turigliatto

GLI INGANNATI                        

(Al-Makhdu’un / The Dupes, Siria, 1972, b/n, 103’’, v.o. araba con sottotitoli italiani

Regia: Tewfik Saleh

Con: Mohamed Kheir-Halouani (Abou Keïss), Abderrahman Alrahy (Abou Kheizarane), Bassan Lofti Abou-Ghazala (Assaad), Saleh Kholoki (Marouane), Thanaa Debsi (Om Keïss).

Gli ingannati è uno dei capolavori più alti e potenti del cinema arabo, straziante storia di emigrazione palestinese, girato in Siria da un importante cineasta egiziano.  Il film è stato recentemente restaurato da The Film Foundation’s World Cinema Project di Martin Scorsese e dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con The National Film Organization e la famiglia di Tewfik Saleh. La versione restaurata è stata presentata in prima mondiale al Festival Il Cinema Ritrovato. Prima del restauro il film era già stato mostrato in Italia da Fuori Orario nel 1999 e dal Festival I Mille Occhi nel 2017.

A poco più di dieci anni dalla nakba, l’ esodo palestinese forzato dai territori diventati israeliani nel ’48, tre rifugiati in Iraq, di differenti generazioni, sognano di fuggire  dai campi profughi installati a Bassora, sulle rive dello Shatt el Arab,  in territorio iracheno. dove non trovano lavoro, e di attraversare il deserto, verso la ricchezza e la prosperità del Kuwait.   «Non hanno la stessa età, non sono della stessa famiglia e dello stesso villaggio, ma Abu, Assad e Marwan condividono il medesimo sogno: una vita migliore in Kuwait, la loro “terra promessa”.   Il passeur Abul Khaizuran convince i tre compagni di sventura a tentare la traversata delle frontiere nascosti all’interno del suo camion-cisterna, che nel deserto si trasforma in una fornace.  Tewfik Saleh realizza un’opera altamente politica, che denuncia anche certi governi arabi, e mostra il gioco al massacro nel quale i potenti guardano i loro popoli morire di fame e di sete in un deserto soffocante. Come una metafora della sorte del popolo palestinese costretto all’esilio dal 1948». (Laura Lépine, catalogo del Festival Cinéma du Sud, Lione, 2024)

«Ho lavorato all’adattamento di Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani (militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina assassinato il 9 luglio 1972 a Beirut dal Mossad) dal 1964 al 1971. Le mie intenzioni e la mia interpretazione del romanzo e dei suoi personaggi sono cambiate alla luce dei tragici eventi accaduti in questa regione nel giugno 1967 e nel settembre 1970. Nell’ultima versione del progetto ho voluto mettere l’accento sull’idea di fuga che in questo momento caratterizza il Medio Oriente. Tre personaggi di tre generazioni diverse, che rappresentano tre fasi dello stesso problema collettivo, decidono di fuggire dalla loro situazione alla ricerca di quella che ciascuno considera o spera sia la propria salvezza individuale. Ma la fine è molto diversa dalle loro aspettative: non esiste salvezza individuale da una tragedia collettiva. Ed è questa la lezione che la storia ci insegna ogni giorno» (dichiarazione di Tewfik Saleh, raccolta da Tahar Cherfiaa, in.Dossiers du cinéma: Cinéastes,  Casterman, Parigi 1971, riprodotta nel catalogo del Festival Il Cinema Ritrovato, 2023)

IL PARADISO PROBABILMENTE                           

(It Must Be Heaven, Francia-Canada, 2019, col., 98’, v.o. sott., it.)

Regia: Elia Suleiman

Con: Elia Suleiman, Tarik Kopty, Kareem Ghneim, Gael Garcia Bernal

Vincitore del Premio Speciale della giuria al Festival di Cannes, l’ultimo film di Elia Suleiman lo vede ancora protagonista davanti e dietro la macchina da presa. Il regista palestinese interpreta se stesso, un cineasta stanco di vivere nella claustrofobica Palestina occupata da decenni e che da Nazareth intraprende un viaggio alla ricerca di un posto migliore. Ma da Parigi a New York, il silenzioso Elia (in tutto il film pronuncerà una sola frase), trova un mondo fatto di checkpoint e divieti, di frontiere e  di limiti, in cui la dimensione surreale è amplificata dalla presenza del protagonista, che nelle diverse situazioni ricorda ora Buster Keaton ora Jacques Tati.  A distanza di dieci anni da Il tempo che ci rimane, Suleiman  mette in scena con lucidità straniante e humour burlesco la grottesca democrazia poliziesca occidentale, vista con la distanza dell’occhio dello  “straniero”, il cineasta palestinese eterno vagabondo che continua a  esplorare il senso di parole come identità, nazionalità, appartenenza e a porsi la domanda: dov’è oggi il posto che possiamo veramente chiamare casa? “Se nei miei film precedenti la Palestina poteva assomigliare a un microcosmo del mondo, il mio nuovo film tenta di presentare il mondo come un microcosmo della Palestina” (Elia Suleiman)

“E’ molto misterioso come un cineasta penetra nel vostro incosciente e si insedia nel vostro sistema di composizione. Prima di realizzare il mio primo film e prima che mi venisse detto che c’erano delle somiglianze, non avevo visto nulla di Tati e di Buster Keaton. I miei cineasti di riferimento erano Antonioni, Bresson, Ozu. E mi sento influenzato più dalla letteratura e dalla filosofia che dal cinema. (.:.) Chaplin lo vedo adesso. Volevo dare più fisicità al mio personaggio, mentre nei film precedenti restava totalmente osservatore e distante» (Elia Suleiman, “Cahiers du Cinéma” , n. 761, dicembre 2019)

“Qualcuno, scommettiamo, obietterà una certa superficialità delle trovate di Suleiman. Ma il fatto è che il suo discorso si concentra proprio sulla superficialità della percezione comune, sull’equivoco di ciò che si dà a vedere, sull’illusione della chiarezza, della trasparenza. E della libertà.  Suleiman osserva, con la sua maschera muta e leggermente frastornata. Ma c’è differenza tra sguardo e sguardo. Bisognerebbe ripeterlo, oggi forse più che mai. E quello di Suleiman è uno sguardo attivo. Come quello di Tati (e alla Tati è anche tutto lo straordinario lavoro sull’amplificazione e la sottolineatura dei suoni). Come quello di Herzog e di Ferrara. È un occhio che “interviene” sulla neutralità apparente del dato reale e la trasforma, la trasfigura. Ma solo per arrivare al cuore del senso, all’angolo nascosto o all’invisibile più scoperto e indifferente, quello che abbiamo sotto al naso e non vogliamo vedere.” [Aldo Spiniello, Sentieri Selvaggi]

 

Sabato 18 gennaio dalle 1.20 alle 7.00

Fuori Orario cose (mai) viste                                                

di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

UNA STRADA PER IL DOMANI (OZU, FELLINI NEL CORSO DEL TEMPO)

a cura di Lorenzo Esposito

VIAGGIO A TOKYO                     VERSIONE RESTAURATA

(Tokyō Monogatari, Giappone, 1953, b/n, dur., 134, v.o. sott., it.)

Regia: Yasujirō Ozu

Sceneggiatura: Kogo Noda, Yasujirō Ozu

Con: Setsuko Hara, Chishū Ryū, Chieko Higashiyama, Kyoko Kagawa, Haruko Sugimura, So Yamamura, Kuniko Miyake, Eijiro Tōno, Nobuo Nakamura, Mutsuko Sakura

Il capolavoro assoluto di Yasujirō Ozu. Ispirato al bellissimo Cupo tramonto del 1937 di Leo McCarey e spesso considerato da registi e critici il più bel film mai fatto, Viaggio a Tokyo coglie fatti e sentimenti universali e indica per sempre nella gentilezza e nel rispetto reciproco una “strada per il domani”.

Alla soglia dei settant’anni, due anziani genitori decidono di partire dalla loro città per andare a trovare i figli a Tokyo. Dopo poco i due si rendono conto di essere un peso e che l’unica ad averli a cuore è Noriko, la vedova di un altro figlio morto in guerra otto anni prima.

“Ho provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rapporti fra genitori e figli nel corso del tempo”. “Quando giro un film, non penso alle regole del cinema, così come un romanziere quando scrive non pensa alla grammatica. Esiste la sensibilità non la grammatica”. (Y. Ozu, Scritti sul cinema, a c. di F. Picollo e H Yagi, Donzelli 2016).

GINGER E FRED        VERSIONE RESTAURATA

(Italia, 1985, col., dur., 124’)

Regia: Federico Fellini

Con: Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Franco Fabrizi

Amelia Bonetti e Pippo Botticella in arte Ginger e Fred sono due attempati ballerini di tip-tap, romantici e un po’ squinternati. Ginger e Fred vengono coinvolti da una tv privata in una sorta di “operazione nostalgia”, ma si capisce subito che al centro della scena stanno in realtà la figura del presentatore e la pubblicità. Quando i due vengono chiamati sul palco si verifica un blackout che interrompe il loro numero. Fred-Mastroianni confabulando con Ginger-Masina sull’insensatezza della loro presenza al programma, la convince ad andarsene dal palco insieme a lui prima della ripresa del programma. Mentre sono in uscita e Pippo sta rivolgendo un gestaccio ai “teledipendenti”, la luce torna e i due riprendono tristemente il loro numero di ballo, terminandolo con grande affanno e ricevendo un applauso pietoso.

“Tutti i film sono autobiografici. Siamo sempre autobiografici, anche chi pretende di essere il più obiettivo, il più distaccato in fondo non fa che dar la testimonianza del suo distacco, della sua presunta obiettività. In Ginger e Fred di autobiografico ci posso mettere – sempre scherzosamente – certi malumori, certi risentimenti in quanto ritengo, non dico responsabile, ma certo fatalmente la televisione ha creato un rapporto diverso tra lo spettatore e l’immagine. Non è più quel rapporto così intimidito, suggestionato, fiducioso, esaltato che il grande schermo, che chiamava a raccolta come in una chiesa il pubblico, poi si spegneva la luce e si illuminava questo grande lenzuolo, gli attori erano enormi con questi gran faccioni, labbroni… tutto l’aspetto esotico, l’aspetto del femminile… Tutto questo la televisione lo ha irrimediabilmente distrutto, cancellato. È un’immagine completamente diversa, un’immagine schizofrenica, psichedelica, nevrotica, “coriandolizzata”, frantumata… È una specie di caleidoscopio, di solletico all’occhio che a lungo andare ha creato un tipo di spettatore impaziente, superficiale, che pretende di far lui il film cambiando continuamente da un’immagine di un programma all’altro… Quindi certamente io che sono un cineasta, vedo che devo tener conto di un pubblico che non conosco ed esprimere i miei le mie fantasie i miei pochi pensieri sul mondo con un linguaggio che tenga conto delle esigenze da insetti di questo nuovo pubblico frenetico e impaziente”. (Intervista di Gedeon Bachman a Federico Fellini sul set di Ginger e Fred)


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