La programmazione di Fuori Orario dal 15 al 21 giugno

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Corso estivo di MONTAGGIO, dal 22 luglio

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Omaggio ad Adriano Aprà, l’America Latina vista dai suoi registi e i primi 3 episodi di Otto ore non sono un giorno di Fassbinder. Da stanotte.

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LA SCUOLA DI DOCUMENTARIO di SENTIERI SELVAGGI

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Domenica 22 giugno dalle 1.55 alle 6.00


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Fuori Orario cose (mai) viste                                                      

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SCUOLA DI CINEMA SENTIERI SELVAGGI, scarica la Guida completa della Triennale 2025/2026

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di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

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In occasione dell’uscita della 4a stagione di The Bear Sentieriselvaggi21st n. 17 SCONTATO DEL 50%! 15,00€ –> 7,50€

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presenta

OCCHI NON VOGLIONO CHIUDERSI IN OGNI TEMPO. OMAGGIO A ADRIANO APRÀ

in collaborazione con La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro

La notte si collega alla sezione della Mostra “Spazio Bianco”, curata da Mauro Santini, con cui Fuori Orario aveva già collaborato negli anni scorsi.   “L’omaggio ad Adriano Aprà  è una cerimonia in ascolto della sua voce, attraverso i film di tre giovani filmmakers e di un collettivo che lo ha accompagnato negli anni, sia nella vita affettiva che nel­l’appassionata ricerca cinematografica” (Mauro Santini).

IO CREDO NELL’INCONOSCIBILE       prima visione TV

(Italia, 2025, col., 162’)

Regia: Marco Allegrezza, Edoardo Mariani, Francesco Scognamiglio

Un intero giorno nel tempio-studio di Adriano Aprà. Amor Omnia gridano i suoi occhi!

Il futuro è tutto nostro, dice in ogni momento. Seduti con/per/après Adriano.

Francesco, Edoardo e Marco si incontrano al DAMS di Roma Tre, dove tra una sco­perta cinematografica ed una audiovisuale, imparavano a conoscersi. Nell’intimità di un’amicizia senza tempo, i tre cominciano a sperimentare nel senso più puro, scri­vendo, dirigendo e montando cortometraggi e mediometraggi che archiviano nel contenitore dell’Associazione soQQuadra, scrivono e dirigono la resistenza della sto­rica rivista di critica cinematografica “Filmcritica” e lavorano (nel senso dei cine-ope­rai) in collaborazione con alcuni programmi televisivi. Oggi, insieme a Scrigno Production, sono in produzione i loro due primi lungometraggi. (dal catalogo della Mostra del Nuovo Cinema, 2025)

 

Venerdì 27 giugno dalle 1.40 alle 6.00

UIRÁ, VIAGGIO DI UN INDIO NELLA TERRA DEI MORTI

a cura di Simona Fina

Nel 1970 la Rai coproduce una serie composta da sei lungometraggi, L’America Latina vista dai suoi registi, affidando a sei cineasti latinoamericani di rilievo l’incarico di offrire uno sguardo sul loro paese. All’ideazione e alla realizzazione di questo programma collabora Bruno Torri, cofondatore, assieme a Lino Miccichè, della “Mostra Internazionale del Nuovo Cinema” di Pesaro.

Un progetto che ben rappresenta la storia dei rapporti tra il cinema internazionale e la Rai, nonché la grande lungimiranza del servizio pubblico e la capacità di osservare e considerare il contesto storico oltre il presente. Sei registi latinoamericani esprimono il loro punto di vista in un momento politico in cui nei loro paesi di origine si verificano frequenti colpi di stato che portano al potere capi militari e violente dittature. Il cinema latinoamericano, tenendo conto di tutte le differenze, è un cinema politico, mosso dal desiderio di rivoluzione, di rovesciamento dello stato delle cose, antagonista al cinema colonialista nordamericano, ma anche a tanto cinema europeo. L’’estetica della fame’ si espande attraverso il continente latinoamericano. La macchina da presa è uno strumento e si fa portavoce di realtà e conoscenza. Il Brasile è rappresentato da Gustavo Dahl (Uirá, um índio em busca de Deus, 1972) e Joaquim Pedro de Andrade (Os confidetes, 1972), il Cile da Raúl Ruiz (Nadie dijo nada, 1971), la Bolivia da Jorge Sanjinés (El coraje del pueblo, 1971), e l’Argentina da Octavio Getino (El Familiar, 1972) e Mario Sábato (Los Golpes Bajos, 1972).

Questi sei film sono stati trasmessi dalla Rai un’unica volta, a eccezione del film di Dahl e di Ruiz, quest’ultimo più volte programmato da Fuori Orario, che nel 2007 ha proposto il restauro della versione integrale al CPTV di Roma. Quest’anno Fuori Orario presenta, in collaborazione con Teche – Digitalizzazione, Supporti e Preservazione di Torino, il restauro del film di Gustavo Dahl, a partire dal negativo 16mm a colori, unico superstite. La versione restaurata presenta venti minuti in più rispetto all’edizione televisiva in bianco e nero trasmessa da Rai Due nel 1973, ed è stata comparata con la copia 35mm della Cinemateca Brasileira.

Fuori Orario ha seguito il restauro digitale e ha curato l’edizione dei sottotitoli in italiano.

UIRÁ, UM ÍNDIO EM BUSCA DE DEUS

(T.l. Uirá, un indio alla ricerca di Dio, Brasile/Italia, 1972, col., dur., 86’, v.o. in portoghese e tupi con sott. in it.)

Regia: Gustavo Dahl

Con: Ana Maria Magalhães, Erico Vidal, João Borges, Anazilda, Capitão João, Gustavo Dahl

Interiore del Maranhão (nord est del Brasile), 1939. Dopo la morte del figlio maggiore, vittima di una malattia trasmessa dai bianchi, l’indio Uirá, capo della tribù Urubù, viene colto da una profonda depressione e decide di partire con il resto della famiglia alla ricerca del Dio Maíra, divinità creatrice del mondo degli uomini, alla quale si ricongiungono solo i bravi guerrieri della foresta dopo la morte. Ma Uirá incontrerà qualcosa di più spaventoso, la ‘civilizzazione’ del Brasile dello Estado Novo.

La sceneggiatura di Dahl si basa su una storia vera, avvenuta negli anni’30 e descritta nell’indagine antropologica compiuta nel 1951 da Darcy Ribeiro nello stato del Maranhão, Uirá va incontro a Maíra. Le esperienze di un indio partito alla ricerca di Dio.

“Il movente del film è portare lo spettatore cittadino, bianco, occidentale, a sentire sulla propria pelle, attraverso il processo di identificazione cinematografica, le aggressioni compiute nei confronti degli indigeni. Il film vuole comunicare allo spettatore che qualsiasi persona può trovarsi in quella situazione. Durante la preparazione di Uirá ho pensato spesso a Tabu di Murnau.

Vedere un protagonista nativo che interpreta il personaggio principale avrebbe portato lo spettatore a osservarlo come uno straniero, qualcuno che non appartiene alla nostra nazione, al nostro gruppo culturale. Questo tipo di reazione non mi interessava, la mia intenzione era quella di suscitare delle emozioni, l’approccio intellettuale non mi importava. Ho optato per un film narrativo, per un ‘trattamento’ classico della storia, piuttosto che realizzare un documentario antropologico. In questo modo ho permesso allo spettatore di identificarsi con il personaggio, eludendo una percezione astratta del problema”. (Gustavo Dahl)

Dahl realizza il suo film in un momento in cui la censura in Brasile è molto rigida e il controllo sull’informazione è totale e volto a restituire un’immagine del paese ‘ordinata’, ‘sicura’ e volta al ‘progresso’ (il motto ‘Ordem e progresso’ riportato sulla bandiera nazionale). Lo sguardo di Dahl sul Brasile si posa su una questione secolare e ancora oggi estremamente attuale, il rapporto tra i colonizzatori ‘bianchi’ e gli indigeni brasiliani. Se Darcy Ribeiro, uno dei più importanti antropologi brasiliani, intellettuale fine e poliedrico, vide nella mescolanza delle razze l’elemento che distingue il Brasile e definisce il ruolo storico dei brasiliani, prototipo del terzo mondo e quindi di un terzo uomo, non si esime dal condannare la violenza morale e culturale nei confronti degli indigeni. Attraverso la storia dell’indigeno Uirá, Dahl dà voce agli indigeni di tutti i secoli passati e futuri. Mettere in scena questo frammento di storia brasiliana vuol dire mettere in discussione la violenza civilizzata, quella del più forte sul più debole. Il film inizia e termina con un lutto.

Uirá è prima di tutto una tragedia; il suo viaggio alla ricerca del Dio Maíra non è dettato da un desiderio di purificazione, ma è segnato dalla disperazione, dalla rabbia e dalla depressione per la perdita di un figlio ucciso dalla malattia dei bianchi. Circa un terzo della popolazione Urubù è morta di epidemie nei primi venticinque anni di contatto con i non indigeni e Uirá sembra farsi carico di questo peso. Non mostra segni di rivolta contro i bianchi, non pesca, non caccia, quasi non parla.

Il suo è un dramma intimo, l’incontro con Maíra è un’ossessione mistica, la corsa verso il mare il rifiuto dell’integrazione sociale con il più forte, ma al tempo stesso segna la rottura con il suo mondo. Dopo un lungo e tormentato viaggio Uirá si rifiuterà di tornare tra gli abitanti della foresta e troverà pace nella morte e nel ricongiungimento con Maíra. Così la macchina da presa assiste immobile all’immersione di Uirá nel fiume Pindaré, osservandolo da lontano. È l’immagine di una cultura alla deriva. Il film di Dahl è un atto d’amore e rappresenta una tappa obbligatoria nella storia del cinema brasiliano che affronta questa tematica.

KATAI RACCONTA – CONVERSAZIONE CON ANA MARIA MAGALHÃES

(Italia, 2025, col., dur., 30’ca, v.o. con sott., in it.)

a cura di: Simona Fina

Ana Maria Magalhães ricorda aneddoti legati alle riprese del film.

Il suo personaggio (Katai, moglie di Uirá), rappresenta una sorta di coscienza superiore all’interno del film. Il regista ricorre alla narrazione off di Katai per raccontare a posteriori la storia di Uirá e della sua famiglia. Katai, contrappunto di Uirá, è un personaggio attivo, vitale: piange e ride, mentre Uirá resterà chiuso nel suo dramma interiore.

RICORDI DALLA FORESTA – CONVERSAZIONE CON MARA CHAVES E ALTAN

(Italia, 2025, col., dur., 30’ circa)

a cura di: Simona Fina

Negli anni’60 molti cineasti brasiliani sono esuli in Italia, dove stabiliscono rapporti importanti con cineasti e intellettuali del nostro paese. Una questione di affinità elettive lega il Brasile all’Italia, dando vita a un sodalizio cinematografico importante per entrambi i paesi.

Altan parte per il Brasile verso la fine degli anni’60 e partecipa a importanti coproduzioni Rai.

Tra le più importanti si ricordano Tatu Bola (1972), film sperimentale per la TV, realizzato da un collettivo di registi brasiliani, tra cui Glauber Rocha; Tropici (1968) di Gianni Amico e Uirá (1973), di Gustavo Dahl.  Sul set di Tatu Bola Altan incontra Mara Chaves, costumista importante nel cinema brasiliano di quegli anni. Per il film di Dahl, Mara Chaves, maestra nell’arte delle decorazioni con le piume, realizza gli ornamenti degli indigeni, basandosi su foto e documenti antropologici. Insieme ricordano la preparazione di Uirá.

 

Sabato 28 giugno dalle 2.00 alle 6.30

OTTO ORE NON SONO UN GIORNO

Episodio 1: Jochen e Marion, 102′

Episodio 2: Nonna  e Gregor, 100’

Episodio 3: Franz e Ernst, 93′

(Acht Stunden sind kein Tag, Germania,  1972-1973, col., dur., totale 295’30’’, v. o. sott., it.)

Regia: Rainer Werner Fassbinder

Con: Gottfried John, Hanna Schygulla, Luise Ulrich, Werner Finck, Anita Bücher, Wolfried Lier, Christine Oesterlein, Renate Roland, Kurt Raab, Irm Hermann, Margit Carstensen, Ulli Lommel, Eva Mattes

La serie Otto ore non sono un giorno, prodotta dalla Westdeutscher Rundfunk e andata in onda tra il 1972 e il 1973, ha fatto la storia della televisione tedesca. Il tentativo di Fassbinder di reinterpretare  un genere popolare come la serie fu un grande successo di pubblico. Dimenticate per decenni,  le 5 puntate sono diventate di nuovo disponibili dopo il restauro promosso dalla Rainer Werner Fassbinder Foundation  con la collaborazione  del Museum of Modern Art di New York. Si tratta della grande riscoperta di una delle opere più originali del geniale regista tedesco, di cui Fuori Orario aveva presentato in passato l’altra grande produzione televisiva, Berlin Alexanderplatz.

La versione restaurata è stata presentata in prima mondiale al Festival di Berlino del 2017.

Le vicende della famiglia Kruger scorrono in parallelo con le traversie lavorative dei suoi singoli membri, in particolare quelle di Jochen, operaio meccanico in una fabbrica. Le storie d’amore di diversi personaggi nascono, crescono e muoiono nel corso della serie intrecciandosi alle relazioni che si stabiliscono tra gli operai e i padroni nelle fabbriche. Lo svolgersi della vita quotidiana si apre alla discussione delle questioni sociali più acute: i trasporti pubblici gratuiti, l’alto prezzo degli affitti, la cogestione dell’impresa, la solidarietà tra gli operai, l’educazione autoritaria, la carenza di asili, i pregiudizi nei confronti degli immigrati, il doppio fardello lavorativo delle donne … Fassbinder intendeva creare un’alternativa non solo al “mondo perfetto” delle finzioni televisive ma anche al genere dei documentari politici.

Il film è il frutto di un anno di ricerca nelle fabbriche e di discussione coi lavoratori e si avvale della partecipazione di molti degli attori e dei collaboratori abituali del regista.. La serie fu un successo di pubblico ma fu  aspramente criticata non solo  dai critici conservatori ma anche  da quelli di sinistra, che rimproveravano al regista di non aver considerato  il ruolo del sindacato. La serie era prevista  in otto episodi ma malgrado il successo Günther Rohrbach,  direttore della programmazione della Rete, lo interruppe dopo il quinto episodio.

Dichiarò Fassbinder: “Tutti i film e i drammi che ho scritto erano indirizzati a un pubblico intellettuale. Nei confronti di questo si può benissimo essere pessimisti e lasciare che un film si concluda nell’impotenza. Un intellettuale è libero di lavorare sul problema con i suoi strumenti culturali. Nel caso del pubblico più largo, che era quello della mia serie televisiva, sarebbe stato reazionario e pressoché criminale dare un’immagine disperata del mondo. Il primo compito è di tentare di renderli più forti dicendo loro: ‘Voi avete ancora delle possibilità: Voi potete fare uso della vostra potenza, perché l’oppressore dipende da voi. Che cosa è un padrone senza operai? Nulla. Ma si può senza dubbio pensare a un operaio senza padrone’. E se io ho fatto qualcosa che per la prima volta lascia la speranza, è stato fondamentalmente a partire da questa idea. E non si ha diritto di fare altrimenti con un pubblico di venticinque milioni di persone medie”.

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