La programmazione di Fuori Orario dal 23 al 29 marzo

L’Inland Emipre cinese con Jia Zhang-ke e Michelangelo Antonioni, l’ignoto spazio profondo tra Robert Rodriguez e Claire Denis e l’età dell’innocenza di Jean Eustache e Sean Baker. Da stanotte

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OPEN DAY OPERATIVO: A scuola di cinema, a Roma 3/4 maggio (iscrizione gratuita)

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Fundraising per l’audiovisivo: Corso online dal 14 aprile

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Produzione e Distribuzione Cinema: due corsi dal 6 maggio

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Domenica 23 marzo dalle 2.30 alle 6.00

Fuori Orario cose (mai) viste

di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

CINA, INLAND EMPIRE (1)

a cura di Roberto Turigliatto

AL DI LÀ DELLE MONTAGNE                      

(Shan He Gu Ren, Cina, 2015, col., dur., 121’, v.o. sott. italiano)

Regia: Jia Zhangke

Con: Zhao Tao, Zhang Yi, Liang Jingdong, Dong Zijang, Sylvia Chang, Rong Zishang

 Il film prosegue il viaggio politico con cui Jia Zhangke racconta le grandi trasformazioni sociali della Cina contemporanea. Parlando di Al di là delle montagne il regista ha dichiarato: “Volevo raccontare la storia collettiva di un’intera generazione”.

Il film è diviso in tre parti. La prima parte è ambientata nella città di Fenyang (nella provincia settentrionale dello Shanxi) nel 1999. La 25enne negoziante Tao (Zhao Tao) è combattuta tra due pretendenti, gli amici di infanzia Liangzi (Liang Jingdong) e Jinsheng (Zhang Yi). Jinsheng è un benestante proprietario di una stazione di servizio che potrebbe migliorare drasticamente le sue condizioni di vita materiali. Lei si sente più vicina a Liangzi, un operaio nella miniera di carbone locale. Quando si confronta con entrambi gli uomini, Tao decide di sposare Jinsheng nella speranza di lasciare Fenyang. Con lui avrà un figlio di nome Dollar.

Nel 2014 Tao, ormai divorziata da Jinsheng, vive ancora a Fenyang dove gestisce la prosperosa stazione di servizio. Jinsheng si è risposato e vive a Shanghai, ed è diventato ricco grazie agli investimenti. Liangzi lavora come minatore vicino a Handan, nella vicina provincia di Hebei, e si è ammalato. Daole (pronunciato Dollar in inglese), il figlio di 7 anni di Tao e Jinsheng, va a trovare la madre per il funerale di suo padre. Tao è turbata dalla distanza di Daole, che lei riconosce essere dovuta alle loro differenze culturali. Tao, sapendo che sono destinati a stare lontani, decide di prendere il treno lento con Daole, invece di rimandarlo in aereo a Shanghai. Come regalo d’addio, Tao dona a Daole un mazzo di chiavi di casa sua, in modo che possa tornare a casa di sua madre quando vuole.

Nel 2025 Daole (ora chiamato Dollar) frequenta il college in Australia. Litiga costantemente con suo padre per il suo desiderio di abbandonare il college e avere la libertà che non gli è mai stata concessa nella sua infanzia. Incontra Mia, la sua insegnante di lingua cinese, una donna più grande con la quale inizia una relazione. Dollar condivide con Mia il fatto che porta ancora con sé le chiavi che sua madre gli ha dato quando era un ragazzino e teme di non poter più rivedere la madre. Mia lo convince a tornare con lei in Cina per poter vedere Tao.

CHUNG KUO CINA – prima puntata

(Italia, 1972, col., 72’)

Regia: Michelangelo Antonioni

Nel 1972 la Cina di Mao Zedong invita Michelangelo Antonioni a girare un lungo documentario sulla Cina comunista. I sole cinque settimane, nel maggio -giugno 1972, vengono girati più di 30.000 metri di pellicola Super 16.  Antonioni e i suoi viaggiano e girano dal nord al sud, dall’ est all’ovest del grande paese sotto i pesanti controlli delle autorità. Le aspettative ufficiali erano enormi ma, all’uscita del film, la censura reagisce furiosamente.  Con grande sorpresa del suo autore, Chung Kuo, Cina viene criticato duramente. Vittima dello scontro in atto al vertice del Partito, il film viene subito vietato in tutto il paese e Antonioni, dichiarato nemico del popolo, solo nel 2004 viene riabilitato.

Chung Kuo, Cina era nato come taccuino di viaggio o, per dirlo con le parole del critico Sam Rohdie: “ll film non è un documentario sulla Cina ma un documentario su Antonioni che guarda la Cina”.

Oggi il film resta uno straordinario documento sulla Cina della Rivoluzione Culturale, una testimonianza unica che si allontana sideralmente dalla propaganda ufficiale. Ma è nello stesso tempo un grande film di Antonioni, che si richiama alla ricerca estetica iniziata fin dal suo primo film, Gente del Po.

«Ricordo di aver chiesto ai miei ospiti che cosa secondo loro simboleggiava più chiaramente il cambiamento avvenuto dopo la Liberazione. ‘L’uomo’, mi avevano risposto. So che (…) parlavano della coscienza di un uomo, della sua capacità di pensare e vivere giustamente. Tuttavia quest’uomo ha anche uno sguardo, un volto, un modo di parlare e di vestirsi, di lavorare, di camminare nella sua città o nella sua campagna. Ha anche un modo di nascondersi e di voler sembrare, talvolta, migliore o comunque diverso da quello che è. È una presunzione avvicinarsi a questa moltitudine di uomini girando in ventidue giorni trentamila metri di pellicola?» (Michelangelo Antonioni, prefazione a hung Kuo Cina, Einaudi, 1974)

 

Venerdì 28  marzo dalle 1.40 alle 6.00

CINEMA E NON-PIÙ-CINEMA

1 – L’ignoto spazio profondo 

a cura di Lorenzo Esposito

ALITA – L’ANGELO DELLA BATTAGLIA

(Alita: Battle Angel, Usa 2019, col, 117′)

Regia: Robert Rodriguez

Con: Rosa Salazar, Christoph Waltz, Jennifer Connelly, Mahershala Ali, Ed Skrein, Jackie Earle Haley, Keean Johnson

Nell’anno 2563, 300 anni dopo che la Terra è stata devastata da una guerra catastrofica, lo scienziato Dr. Dyson Ido recupera un cyborg femminile con un cervello umano intatto nella discarica di Iron City. La unisce a un nuovo corpo cyborg e la chiama “Alita”, come la sua defunta figlia. Il cyborg Alita, senza memoria del proprio passato, si mette in cerca del suo destino. Dopo poco, scopre di saper usare tecniche di combattimento dimenticate e viene attraversata da immagini del passato che le chiedono di cambiare le cose su ciò che resta del pianeta. Alita diventa un pericolo, e quando il ragazzo di cui si è innamorata rimane ucciso, giura vendetta. 

Alita: L’angelo della battaglia è tratto dalla serie manga Battle Angel Alita di Yukito Kishiro, ed è stato co-scritto da James Cameron, che lo ha anche prodotto James Cameron insieme a Jon Landau. Il film è girato utilizzando l’animazione CGI detta performance-capture. Dopo che l’attrice Rosa Salazar è stata scritturata per interpretare il personaggio principale, gli studi neozelandesi Weta hanno scansionato digitalmente il suo volto e hanno iniziato a costruire una versione di Alita completamente generata al computer basata sull’interpretazione della Salazar. Solo per alcuni dei ruoli secondari, interpretati da Christoph Waltz, Jennifer Connelly, Mahershala Ali, Ed Skrein, Jackie Earle Haley e Keean Johnson, sono stati utilizzati attori in carne e ossa.

“Molte persone pensano: “Oh, quella è Rosa… e le hanno solo aumentato gli occhi. No! Il personaggio è completamente generato al computer. È molto simile al processo di nascita di un essere umano”.

“Non abbiamo consegnato nessuno dei disegni alla Weta prima di aver scelto Rosa”, racconta il produttore Landau. “Volevamo che ci fossero tutte le piccole idiosincrasie che aveva portato nel suo provino. Abbiamo imparato da Avatar che quando si scansiona la struttura facciale di una persona è importante che la parte inferiore del viso sia corretta: è più difficile di quanto si pensi. Una volta capito che potevamo farlo, abbiamo iniziato a lavorare con loro sull’intero processo digitale di creazione dell’aspetto di Alita”.

(D. Fear, Rodriguez: How we made Alita: Battle Angel, in Rolling Stone 17 febbraio 2017)

HIGH LIFE – BELLA VITA            

(High Life, Francia/Germania/Regno Unito/Polonia/Usa, 2018, col, dur. 108’ v. o. sott., it.)

Regia: Claire Denis

Con: Juliette Binoche, Robert Pattinson, Mia Goth, André Benjamin, Agata Buzek, Lars Eidinger, Ewan Mitchell, Victor Banerjee

Presentato al Festival Internazionale del Film di Toronto

Un gruppo di criminali condannati a morte viene inviato in missione nello spazio per estrarre energia alternativa da un buco nero. Ogni prigioniero viene trattato come una cavia dalla dottoressa Dibs per i suoi esperimenti. La dottoressa è fissata con il tentativo di creare un bambino nello spazio attraverso l’inseminazione artificiale, ma non ci è ancora riuscita. Dibs trova il modo di far nascere una bambina, ma ormai l’equipaggio è fuori controllo e la nave precipita nel buco nero. Rimane un solo membro, Monte, che chiama la bambina Willow. Monte cresce la bambina fino a quando è adolescente e insieme decidono di fare un tentativo estremo per allontanarsi dal buco nero.

“Quando ho fatto le ricerche preliminari ho trovato la luce gialla inventata da Olufar e questa luce gialla per me era la fine. Come l’istante della singolarità, ma per me non c’era un’altra fine. Mai. Per me c’è speranza in questo finale. Non è un finale triste. “Vogliamo? Sì.” L’inizio e il finale, voglio dire, se non ti aggrappi ad alcune cose, fisicamente, mentre scrivi una sceneggiatura, come alcuni temi… Come la fuckbox, per esempio, è qualcosa che conoscevo, e il giardino, il mangiare la fragola, cose del genere. Puoi fare un film in questo modo, sai? Perché un giardino è così importante quando sei così lontano dalla Terra e non c’è ritorno, capisci? Per me il giardino è sempre stato un obbligo. Non so perché. Ora continuo a dire che sì, è per via di Andrei Tarkovsky. Ma in un certo senso, mi piace anche il giardinaggio e ho pensato che, se c’è un giardino, allora il film andrà bene”. (Claire Denis)

 

Sabato 29 marzo dalle 0.50 alle 7.00

CINEMA E NON-PIÙ-CINEMA

2 – L’età dell’innocenza

a cura di Lorenzo Esposito

UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA

(The Florida Project, Usa, 2017, col., dur. 108′)

Regia: Sean Baker

Con: Willem Dafoe, Brooklynn Kimberly Prince, Bria Vinaite, Valeria Cotto, Christopher Rivera, Caleb Landry Jones

Presentato nella sezione Quinzaine des realisateurs del Festival di Cannes 2017.

Il film, che si avvale di molti attori non professionisti o alla prima apparizione, e che è girato in pellicola, non rinuncia a un eclettismo sfrenato, con scene spesso improvvisate e coadiuvate da stili e tecniche differenti (candid camera, telecamere nascoste e iPhone 6). La trama è incentrata sulle avventure estive di una bambina di sei anni che vive con la madre single e disoccupata in un motel economico a Kissimmee, in Florida. La loro lotta per sbarcare il lunario ed evitare di rimanere senza casa si svolge in un ambiente surreale dominato dal vicino Walt Disney World, che durante le fasi di progettazione era stato chiamato in codice “Progetto Florida”. Il film contrappone questa situazione alla vita quotidiana meno affascinante dei residenti locali e alle gioiose avventure dei bambini che esplorano e sfruttano al meglio l’ambiente circostante rimanendo beatamente ignari delle difficoltà che i loro custodi adulti devono affrontare.

“Per me un luogo diventa un personaggio. In Florida avevamo molti motel tra cui scegliere. Su e giù per la Route 92 ci sono motel economici che ora sono abitati di settimana in settimana da famiglie. Ma era il Magic Castle che desideravo tanto, per il legame e per il colore. Non l’ho dipinto di viola, era già viola. […] Faccio sempre casting per strada. È importante per me. Ho trovato Valeria Cotto, che interpreta Jancey, in un Target. L’ho notata da lontano per i suoi capelli rossi. Ho dato a sua madre il mio biglietto da visita. All’inizio era sconcertata, ma poi ha cercato su Google e ha visto che ero in regola e ha portato Valeria a fare il provino. Christopher [Rivera] è arrivato tramite un casting call. Abbiamo lanciato una rete molto ampia. È arrivato con una tale energia e ci ha conquistato in pochi secondi. Abbiamo poi scoperto che in realtà è un ragazzo di un motel e sono felice che il film possa far guadagnare un po’ di soldi alla sua famiglia e magari dargli un inizio, se vuole recitare. Voglio dire, sono così giovani, chissà dove andranno, ma mi piacerebbe che l’industria abbracciasse tutti i miei attori. […]Si può trovare la bellezza nel digitale, ma la pellicola ha qualcosa che il digitale non ha. È quella qualità organica, qualcosa che vive e respira nella celluloide e nel modo in cui cattura la luce e le immagini sull’argento. Non sono ancora convinto che il digitale possa replicarla. […] Il digitale è fantastico. È ovviamente ciò che mi ha portato qui. Ho girato un film con l’iPhone e mi ha attirato molta attenzione, e forse lo rifarò in futuro. Ma quando ho avuto la possibilità di girare in pellicola, ho colto l’occasione” (A. Taubin, Interview: Sean Baker, in “Film Comment” 4 settembre 2017)

MES PETITES AMOUREUSES – I MIEI PRIMI PICCOLI AMORI

(Francia, 1974, col., dur., 119′, v.o. sott.it.)

Regia: Jean Eustache

Con: Martin Loeb, Jacqueline Dufranne, Ingrid Caven, Diony Mascolo, Henri Martinez, Jean.Noêl Picq, Maurice Pialat, Pierre Edelman, Caroline Loeb

Il titolo riprende quello di una poesia di Arhur Rimbaud.

A lungo sottovaluto e incompreso, il film è oggi considerato un capolavoro altrettanto cruciale del precedente La maman et la putain, come ha scritto Bernard Eisenschitz, al di là dei complessi rapporti tra realtà e finzione (qui l’infanzia e l’adolescenza provinciale di Eustache),  la confusione a proposito dell’autobiografia non ha più ragione di esistere, così come il mito dell’auteur maudit  (dopo il suicidio di Eustache). Anche Mes petites amoureuses, come La maman et la putain, oggi può essere visto per il suo vero valore.

In Mes petites amoureuses Eustache racconta il passaggio all’adolescenza come un momento doloroso, con la scoperta del desiderio, e la vocazione all’isolamento. Daniel vive con sua nonna a Pessac, piccolo villaggio vicino a Bordeaux, e trascorre le giornate della sua infanzia con i suoi amici. Terminato l’anno scolastico, Daniel viene costretto dalla madre a trasferirsi a Narbonne, dove la donna vive con il suo amante José. Daniel vorrebbe tornare a Pessac per continuare la scuola, ma sua madre, che non può permettersi di continuare a pagargli gli studi, lo manda a lavorare come apprendista in un negozio di riparazioni dei ciclomotori. Daniel avrà modo di farsi nuovi amici e di provare i suoi primi tormenti d’amore.

«Ritorno dell’autore all’età interrotta di Pessac e di Narbonne, al suo “qui e ora”, Mes petites amoureuses è un film misterioso, per nulla accattivante, specie se raffrontato alla quasi totalità delle narrazioni su infanzia e adolescenza. (…) L’esplorazione silente in cui scopre l’ineluttabilità di un futuro annunciato (alla stregua di un giovanissimo Rimbaud del “tutto-già -vissuto”, il cui verso risuona fin dal titolo) fa del piccolo Daniel una mise en abyme continua e complessa, ritratta nella promenade di Narbonne con la più struggente delle apparizioni di Jean Eustache nei suoi film: il cineasta che incontra la sua immagine adolescente, seduta dirimpetto, lo sguardo dello sguardo, passato e presente annullati, nel tournage che riprende se stesso.» (Luca Bindi, Jean Eustache, Milano-Udine 2019)


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