La programmazione di Fuori Orario dall’8 al 14 gennaio

Doppio Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, Vedete, sono uno di voi), Il colore del melograno di Paradžanov e Material di Thomas Heise. Questo e altro nelle tre notti di Fuori Orario

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Domenica 8 gennaio dalle 1.25 alle 6.00

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Fuori Orario cose (mai) viste

di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

TRACCE DEL TEMPO PERDUTO (2)

a cura di  Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

SAYAT NOVA                    

(Il colore del melograno, URSS-Armenia, 1966, col., dur., 77’, v. o. sott., .it.)

Regia: Sergej Paradžanov

Con: Sofiko Čiaureli (il Poeta da giovane/l’amata del Poeta/la monaca in pizzo bianco, l’Angelo della Resurrezione/il mimo), Melkon Alekjan (il Poeta da bambino), Vilen Galustjan (il Poeta monaco), Georgij Gegečkori (il Poeta anziano)

Il capolavoro di Sergej Paradžanov, è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna e dal Film Foundation, a partire dalla copia di distribuzione armena proiettata nell’ottobre del 1969 a Erevan con  integrazioni dalla copia sovietica.

Una fantasia poetica su Sayat Nova (ca. 1712-1795), trovatore armeno (ashugh) che componeva i suoi versi in lingua armena, azera e georgiana. A un tempo solenne e sensuale, il film celebra lo spirito creativo transcaucasico attraverso una successione di dipinti, pantomime, oggetti di folklore e quadri allegorici in un’atmosfera autenticamente armena. L’estetica radicale del film ha ispirato registi quali Jean-Luc Godard e Mohsen Makhmalbaf.  Paradžanov aveva strutturato la sceneggiatura originale in una serie di “miniature” che dovevano evocare i principi pittorici e narrativi dell’arte armena e persiana.

“Guardare Sayat Nova è come aprire una porta ed entrare in un’altra dimensione dove il tempo si è fermato e la bellezza si manifesta senza costrizioni. (…) I tableaux cinematografici di Paradžanov sembrano intagliati nel legno o nella pietra e i colori paiono essersi materializzati naturalmente dalle immagini nel corso dei secoli”. (Martin Scorsese, dal catalogo di Cinema Ritrovato, 2014)

L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI

(Italia,  1978 , col., dur., 179’)

Regia: Ermanno Olmi

Palma d’oro al Festival di Cannes del 1978

Il film è girato in dialetto bergamasco e  gli attori sono contadini e gente della campagna bergamasca senza alcuna precedente esperienza di recitazione. ”La sua evidente ambizione, sia per ampiezza del campo indagato sia  per finezza di analisi e padronanza dei mezzi lo fa ritenere, ancor più a distanza, il capolavoro di Olmi, e un capolavoro del cinema italiano da contrapporre idealmente se non ideologicamente a La terra trema compreso l’uso del dialetto e la presa diretta. In questo film, dalla drammaturgia ‘debole’, una caratteristica di Olmi, eventi semplici si caricano di grandi conseguenze (i pomodori per Anselmo,  la moneta per Finard e naturalmente l’albero tagliato per Battisti), senza per questo sottrarsi al principio prosastico e appesantirsi di significati troppo espliciti”.

 

Venerdì 13 gennaio dalle 1.25 alle 6.00

TRACCE DEL TEMPO PERDUTO (3)

a cura di  Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

RUA APERANA  52                      

(Id. Brasile, 2012, b/n e col., dur., 81′, v. o. sott., it.)

Regia: Julio Bressane

Rua Aperana 52,  presentato in prima mondiale  al  festival di Rotterdam, è  il frutto di un lavoro di montaggio di energia e raffinatezza estreme, sorprendente ed emozionante, in cui Julio Bressane non solo utilizza diverse fotografie scattate tra il 1909 e il 1955 (il padre, la madre, lui bambino, la casa di Rua Aperana 52), ma rimonta estratti di 25 film – intere sequenze o brevissimi frammenti – per lo più girati negli stessi luoghi (la strada, la montagna dei  Dois Irmãos, l’oceano Atlantico con le sue isole all’orizzonte), nel corso di oltre cinquant’anni: dai film di apprendistato del giovane Julio con la macchina 16 mm. Regalatagli dalla madre nel 1958-1959, fino a Erva do Rato, del 2009,  comprese immagini  ancora mai mostrate (da A Fada do Oriente, girato in Marocco nel 1972, e da Viagem através  do Brasil col viaggio in Afghanistan del 1973). È forse la prima volta che un cineasta pratica un lavoro così ampio, preciso e fotogrammatico sul corpo dei suoi stessi film, un’operazione di “spostamento” che per forza inconscia si fa forma del pensiero, fantasmagoria della luce, fantasia musicale. La strada a serpentina che sale lungo la montagna (figura barocca vista e rivista innumerevoli volte in un gioco di ripetizione che entra in risonanza con il modo di avanzare del film stesso e con l’intera filmografia del regista ), nella sua a scesa al settimo cielo ci porta lontano, verso l’infinito,  oltre l’infinito. “invenzione del paesaggio” di questo film,  in cui agisce  ancora una volta quella “forza aborigena del cinema” che in Bressane è anche Atlas della memoria, memoria della storia e memoria della preistoria. (Roberto Turigliatto)

“L’ho pensato come un geo-film, una topografia, la geografia di un luogo. Un luogo non molto vasto ma molto ricco come paesaggio. È un paesaggio che possiede in sé la forza dei quattro elementi, pieno d’acqua, d’aria, di fuoco e di terra. E anche il paesaggio di un grande passato, di un grande segno preistorico. È sempre questo, secondo me, il grande tesoro culturale dell’America, il mondo prima del XVI secolo. Questo luogo di dimensioni limitate, questa piccola geografia, appartiene a questo mondo, contiene in sé tutta questa ricchezza, questo tesoro che oggi viene dimenticato e perfino nascosto alla nostra esistenza. (…) Tutto è autobiografia, conosciamo bene questa mitologia. Ma questo film non ha nulla di autobiografico per quanto riguarda la costruzione della forma. Le fotografie sono quelle dei miei genitori, di me bambino; ma si tratta di qualcosa che può essere sensibile soltanto per chi mi conosce. Gli altri non possono sapere se si tratta di me o di un altro bambino. Naturalmente ci sono i sentimenti, le sensazioni, le passioni: tutte cose presenti in quelle immagini. Ma per quanto riguarda il montaggio ho lavorato sull’idea della costruzione del paesaggio: è questa la cosa importante in queste immagini. (…) Per me questo film rivestiva una grande importanza soprattutto per un’idea di montaggio, il montaggio come forma di pensiero. Ho “spostato” molti miei film precedenti, utilizzandone delle parti, ma tutti questi film sono stati “dati” a un altro film, forgiati in un altro film. Questo film non ha nulla di autobiografico o personale, è semmai un biografema, nel senso di Roland Barthes, ovvero il biografico al di là della biografia”. (Julio Bressane)

SE FOSSI UN LADRO…RUBEREI            

(Se eu fosse ladrão… roubava, Portogallo, 2013, b/n e col., dur., 84’03”, v.o. sottotitoli italiani)

Regia: Paulo Rocha

Con: Luís Miguel Cintra, Isabel Ruth

Presentato al Locarno Film Festival nel 2013

Negli ultimi anni della sua vita Paulo Rocha aveva immaginato una sorta di “ultimo film”, che portasse a compimento la sua opera. Basata sulle memorie della vita del padre che era emigrato in Brasile, ambientato agli inizi del secolo a Porto e nel Furadouro, era anche un modo di tornare sui luoghi della sua infanzia, dove aveva girato Mudar de vida: il   mondo contadino ancestrale, la vibrazione dei corpi nel paesaggio, il passaggio delle generazioni, il ciclo della nascita e della morte, la tensione escatologica verso un altro mondo.  Vi aveva riunito i suoi attori (da Isabel Ruth a Luís Miguel Cintra, e la più giovane Joana Barcia), insieme all’équipe degli ultimi film, da Rio do ouro a Vanitas, e la fotografia di Acácio de Almeida. Terminato poco prima della morte del suo autore il film è un vero miracolo, una grande riuscita artistica, molto più che una ricapitolazione di tutto il suo cinema: piuttosto una nuova metamorfosi cosmica della sua mitologia poetica. Jorge Silva Melo lo definisce “un immenso addio”, “un film estremamente commovente, doloroso, realizzato alla frontiera della morte, filmato in modo magistrale”.  Della sceneggiatura Rocha aveva girato solo una parte (con sequenze stupende, tra cui quelle con Isabel Ruth sulla stessa spiaggia di Mudar de vida che sembrano scaturire da un’esperienza spiritica). Ben presto nella sua mente si era fatta avanti l’idea di montare insieme al nuovo girato estratti dai suoi film precedenti secondo un’idea di rimontaggio operata sul corpo dei propri stessi film. Questo film magnifico ed unico riunisce due pulsioni fondamentali del regista: la poetica visionaria del narratore, con le sue  infinite storie popolate dai fantasmi e dalle memorie del luogo,  e il “collage” modernista, plastico e pitturale dell’ artista d’avanguardia(Roberto Turigliatto)

VEDETE, SONO UNO DI VOI

(Italia, 2017, col., dur., 76′)

Regia: Ermanno Olmi

La vita Carlo Maria Martini, cardinale e arcivescovo di Milano,  per molti decenni fra le più importanti  figure della Chiesa cattolica, deceduto nel 2012.  Accompagnati dalla sue parole (la voce di Olmi impersona quella del Cardinale) si ripercorre la sua vita e la Storia del Novecento. Olmi  sovrappone a quella di Martini  la propria stessa  biografia di cineasta riprendendo brani del suo proprio cinema, da E venne un uomo a Camnmina cammina, da La circostanza a Centochiodi, da Milano 83 a Terra madre in un continuo contrappunto  che ciclicamente fa riapparire  le immagini del letto vuoto e della  camera spoglia della casa di riposo in cui Martini è morto.  Un film  straordinario sul congedo dalla vita che si conclude con un’ultima benedizione  impartita dalla voce quasi muta di un uomo sospeso al di là della morte.

“Ho scelto di raccontare il Cardinal Martini perché abbiamo bisogno di uomini che riescano a fare ciò che noi dovremmo fare. All’inizio avevo paura di affrontare una figura del genere. Avevo già fatto E venne un uomo, il film su Papa Giovanni XXIII. Venne accolto bene ma senza entusiasmo. Ma poi ho deciso di andare avanti con il progetto. Non mi ha mai stupito il fatto che Martini raccogliesse simpatia e consensi. Lo incontrai una volta a Milano per un’intervista Rai, all’epoca era stato appena nominato arcivescovo a Milano. Mi mise in imbarazzo per come era totalmente bendisposto all’ascolto come se avesse moltissimo da imparare da me. Per lui ascoltare era importante per accrescere la sua conoscenza della realtà, per poi fare il meglio per la realtà stessa (…) Io voglio parlarvi direttamente, e usare la mia voce mi è sembrato l’unico modo per guardarvi negli occhi. Ciò che più mi preme raccontare è la grande lezione di umiltà del Cardinale Martini che era un uomo di scienza ma capì subito che doveva camminare con gli uomini comuni. Che questo era molto più importante di qualsiasi altro libro”. (Ermanno Olmi)

 

Sabato 14 gennaio dalle 2.15 alle 7.00

TRACCE DEL TEMPO PERDUTO (4)

a cura di  Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

FRAMMENTI ELETTRICI N. 6 – DIARIO 1989. DANCING IN THE DARK  

(Italia 2009, col., dur., 62’)

Regia: Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

Ultimo film della serie “Frammenti elettrici”. Gianikian e Ricci Lucchi  recuperano e lavorano le immagini che avevano girato nel 1989, rubate nelle varie feste dell’Unità, tra l’Emilia e la Romagna, alla vigilia della caduta del muro di Berlino.

MATERIALE           

(Material, Germania, 2009, b/n e col., dur., 164′, v. o sott. it.)

Regia: Thomas Heise

Presentato alla Berlinale nel 2009 e poi in diversi festival internazionali (ha vinto, tra l’altro, il primo premio del Fidmarseille), il film di Thomas Heise è inedito in Italia . Fuori Orario riproporrà a breve anche il film più recente di Heise, Heimat è uno spazio nel tempo, già trasmesso l’anno scorso.

Il film costruisce un montaggio di materiale filmico non utilizzato di diverso formato (8mm., 16 mm., 35 mm., VHS, Beta SP) girato  nel corso di venti anni,  prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Queste immagini inedite, che costituiscono la materia stessa del film, sono state realizzate per altri film o girate nell’urgenza degli avvenimenti. La domanda di Heise, attraverso il montaggio di questi materiali,  non è solo come documentare un paese in  piena  mutazione ma  cosa fare di queste immagini “residuali”. La domanda è anche: che cosa resta della Germania Est del “prima” del 1989, che cosa resta delle speranze del “dopo”?  Questo è in realtà il vero grande film sul passaggio dalla Germania della RDT alla caduta del muro e alla successiva riunificazione.

Il film inizia con il riso di bambini che giocano in un paesaggio di rovine dei primi anni Novanta, e quindi sotto il segno dell’infanzia, del paesaggio e della perdita.  Seguono altri momenti: “Germania Tod in Berlin”, il lavoro di preparazione per la messa in scena del dramma di Heiner Müller sotto la direzione di Fritz Marquandt nel 1998; lo sgombero delle case occupate della Mainzer Strasse; le manifestazioni di massa di oltre un milione di persone raccolte sull’Alexanderplatz alla fine del 1989. I resti disparati di una storia tedesca. Secondo Heise  “la forma risulta dal materiale”, non gli viene sovrapposta.

Material è così non solo una potente e ineguagliata riflessione personale sulla storia della Germania ma anche un’interrogazione sulle forme della propria stessa scrittura filmica. Heise (nato a Berlino Est nel 1955) prosegue un lavoro cominciato negli anni Ottanta nella RDT, durante i quali è stato non solo documentarista ma anche regista teatrale (discepolo, tra l’altro, di Heiner Müller): un lavoro che è stato oggetto costante della censura da parte delle autorità e che solo in anni più recenti si è potuto scoprire: un lavoro che ne fa uno dei maggiori cineasti tedeschi degli ultimi decenni.

Material è uno dei film più belli visti in questi giorni berlinesi. Commovente, appassionato, scommette sull’intelligenza del dubbio contro l’autoritarismo. È una riflessione importante sull’immagine e sul suo valore oggi, cosa e quanto ci dice, e in che modo vi entra il sentimento personale, la partecipazione di un’esperienza. Filmare per Heise è un gesto di resistenza ma anche, o forse soprattutto, di una prima persona del ‘frammento’, che vuole ancora mettersi in gioco.” (Cristina Piccino, Il Manifesto, 13 febbraio 2009)

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