La rabbia negli occhi, Pietro Mennea

pietro mennea

Nei primi anni '70, dove alternava sconfitte a improvvise vittorie miracolose,  sembrava davvero rappresentare il sogno di poter arrivare, per un ragazzo del sud, dove sembrava impossibile.  E invece grazie a Mennea gli italiani impararono che forse si poteva essere come gli americani, dove a ognuno era data la possibilità di emergere e farsi valere

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Rivedendo oggi, tanti anni dopo, le immagini delle corse di Pietro Mennea, salta gli occhi la totale differenza e unicità di questo incredibile atleta. Che non ha niente a che vedere con i grandi fenomeni dell’atletica leggera, sempre dei veri superman, con strutture fisiche e muscolari portentose. In quei primi anni settanta in cui emergeva il suo talento celebri erano le sue sconfitte (all’inizio) con il sovietico Valery Borzov, che appariva di fronte a lui come l’esatto contrario, quasi una macchina muscolare perfetta, costruita per correre. E dopo, dagli anni ottanta in poi, arriveranno gli atleti giganteschi e quasi “disumani” come Carl Lewis e, oggi, Usain Bolt.

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Pietro Mennea invece era un uomo “normale”, fisicamente parlando, anche se la natura lo aveva dotato di gambe e braccia in grado di muoversi velocissimamente. Ma la sua corsa non fu mai elegante o fluida, ma sempre appariva come una strana energia che esplodesse da un corpo pieno di rabbia. E quella stessa rabbia si esprimeva con quel dito alzato al cielo, spesso polemicamente rivolto contro le stessi istituzioni sportive nazionali, che certo non mettevano gli atleti italiani nelle condizioni migliori per allenarsi e competere con il resto del mondo.

 

Borzov e MenneaMa in quei primi anni settanta, dove alternava sconfitte a improvvise vittorie miracolose, Pietro Mennea sembrava davvero rappresentare il sogno di poter arrivare, per un ragazzo del sud, dove sembrava impossibile. Essere meridionale in quegli anni era una condizione ad handicap, eppure mai come negli anni settanta la voglia di emergere di italiani del sud, spesso provenienti da famiglie di umili origini, esplodeva. Al punto che la Juventus di Agnelli ne fece quasi un “marchio di fabbrica”, come a riportare nello spettacolo del calcio le energie della fabbrica torinese, che in gran parte provenivano dal sud. Fu in quegli anni che la Juventus creò il suo dominio d’immaginario, e divenne quasi un simbolo di rivalsa per i meridionali, che si riconoscevano nelle gesta dei siciliani Pietro Anastasi e Giuseppe Furino, del pugliese Causio, del sardo Cuccureddu, e altri ancora. Mennea veniva dalla Puglia, da Barletta, e riusciva ad emergere in una specialità come quella della corsa veloce dove certo non avevamo ne abbiamo grandissime tradizioni (a parte l’eccezione dell’oro di Roma di Valerio Berruti ne 1960).

Mennea e Borzov

 

I duelli di Mennea con il “bionico” Borzov sembravano sempre impossibili, la macchina perfetta contro l’uomo comune talentuoso. Ma Mennea aveva una dote, che nessuna macchina puo’ avere: la rabbia e la volontà. Quella determinazione, ostinazione, voglia di sottoporsi a un regime di allenamenti che trasformò il suo talento naturale in un atleta capace di ottenere dei risultati “impossibili”. E con una longevità straordianaria. E quando, nel 1980, dopo aver ottenuto a Città del Messico l’anno prima un record del mondo che ha resistito per decenni (19”72), si presentò alla finale Olimpica di Mosca, orfana degli atleti americani, sembrava fatta, una vittoria facile. Ma non fu così. Confinato nella corsia esterna, quella dove sei davanti a tutti e non hai punti di riferimento, arrivò al rettilineo finale tra le ultime posizioni. E qui scattò, più che il talento, la rabbia e la determinazione di chi non voleva – non poteva – farsi sfuggire quel premio olimpico da sempre inseguito. La rimonta e il sorpasso sul filo di lana dell’inglese Wells fu tra le imprese più straordinarie mai viste su una pista d’atletica.

 

 

La vita ha poi riservato a Mennea, scomparso ieri a soli 61 anni, tante soddisfazioni, tra studi, lauree, professione di avvocato e persino parlamentare europeo. Ma quello sguardo e quella rabbia degli occhi, di giovane corridore, fu per molti italiani la dimostrazione che, persino da noi, chiunque poteva farcela, indipendentemente dalle condizioni sociali di partenza. Insomma grazie a Mennea gli italiani impararono che forse si poteva essere come gli americani, dove a ognuno era data la possibilità di emergere e farsi valere. Quella richiesta, generazionale, è poi andata in gran parte disattesa, ma la forza di quella corsa e di quei risultati restano un segno indelebile nella cultura del nostro Paese.

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