La Sapienza, di Eugène Green

La Sapienza

C’è poco spazio per l’imprevisto in una messa in scena così volutamente costruita, dove quasi con certezza si può affermare che ogni battito di palpebre è stato deciso d’anticipo, dove viene data una trama come mero pretesto per parlar d’altro, soprattutto di fantasmi, lasciandosi forse sfuggire il fatto che i personaggi stessi siano al limite dell’evanescenza, contorni sfumati senza contenuto.

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La SapienzaNon si discosta da una traiettoria già battuta negli anni l’ultimo lavoro di Eugène Green, che stavolta si divide tra Bissone, Stresa, Torino e Roma, dove paesaggi e architetture si contendono l’inquadratura con gli attori, i cui sguardi sovente affrontano la macchina da presa stessa.

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C’è poco spazio per l’imprevisto in una messa in scena così volutamente costruita, dove quasi con certezza si può affermare che ogni battito di palpebre è stato deciso d’anticipo, dove viene data una trama come mero pretesto per parlar d’altro, soprattutto di fantasmi, lasciandosi forse sfuggire il fatto che i personaggi stessi siano al limite dell’evanescenza, contorni sfumati senza contenuto. Ma è forse voluto anche questo, se si pensa poi al cameo che Green riserva a se stesso, in un’apparizione tanto programmatica quanto spettrale.

Si trovano, comunque, attimi di apertura, movimenti contrapposti che si sottraggono alla forzata frontalità che schiaccia su troppi fronti l’esito del film. Il primo è il costante movimento verso l’alto, che scavalca le teste degli attori per accarezzare le pareti irraggiungibili, i soffitti ellittici dalle forme così dolci, un abbraccio morbido per ogni collo dolorante per il troppo sforzo; movimento che, nel percorrere per intero la facciata della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, una delle tante sfumature del titolo, superandone la fiaccola, la tiara, il globo e la croce, fino a incontrare solo il cielo, di un bianco marmoreo che invade e sospende lo schermo per alcuni secondi. Il secondo, poi, è un salto indietro nel tempo, la morte tragica e insieme ironica del Borromini, raccontata in pochi minuti ma con un respiro e una composizione nettamente più ispirata rispetto a tutto il resto della pellicola: solo le mani e ciò che riescono a toccare al buio, alla disperata ricerca della luce, che si manifesta nella spirale serpentina della flebile fiamma di una candela, lasciata ardere mentre disegna traiettorie ascendenti.
La luce, elemento che domina la mente e le azioni dei personaggi, vero fulcro e motore di un inesistente intreccio. L’architettura deve riempire gli spazi di luce e di persone, viene ripetuto spesso, eppure è impossibile notare come sia proprio la luce la grande assenza, il motivo per cui forse, aldilà dei numerosi inciampi, soprattutto in sede di dialogo, La Sapienza non riesca ad essere ciò che vorrebbe.

 

Non basta riempire la bocca dei personaggi di luce, per illuminare davvero lo schermo, e quando ci si immerge nel rigoglio della foresta, la mente non può che andare a Straub-Huillet, e solo il ricordo anche flebile della luce che ci hanno regalato per anni fa impallidire la quasi totalità delle inquadrature di Green. Certo, rimangono quegli sguardi centrifughi e vertiginosi, sempre in ascesa verso il punto più alto della Chiesa – ma l’architettura di Borromini è un film a parte.

 

Titolo originale: id.

Regia: Eugène Green

Interpreti: Fabrizio Rongione, Christelle Prot, Luùdovico Succio, Arianna Nastro

Distribuzione: La Sarraz Pictures

Durata: 105'

Origine: Italia/Francia 2014

 

 

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