La scomparsa di Andy Serkis
II corpo di Serkis, che si sottrae e si nasconde, per tramutarsi già nell’immagine digitale in cui ci stiamo trasformando, è proprio al centro di tutto. Immagine estratta dal divenire della materia, dalla sostanza mobile e inafferrabile della realtà. Al centro del cinema. Al centro del futuro
Chissà. Forse ai più il nome di Andy Serkis non dice nulla. Del resto non si tratta di un divo, né di un affascinante sex symbol da copertina. No, parliamo di un personaggio tutto sommato poco visibile. Ma il punto è che proprio questa invisibilità è la forza dirompente di un attore che, come pochi altri, sta raccontando il cinema contemporaneo.
Serkis nasce il 20 aprile 1964 a Ruislip, nell’area metropolitana di Londra, da una famiglia di origine armena. Dopo aver frequentato la St. Benedict’s School, s’iscrive alla Lancaster University, per studiare visual arts (non a caso). Proprio all’università, Serkis si accosta al teatro, frequentando le compagnie del college e vari corsi organizzati per la città. Le prime apparizioni sulle scene aprono le porte del grande teatro. Il giovane attore è impegnato in varie tournèe, tra cui un Re Lear con Max Stafford-Clark. Ed ecco che la televisione si fa avanti. Per una produzione BBC/HBO, Einstein and Eddington, Serkis interpreta il ruolo di Albert Einstein, mentre David Tennant è Sir Arthur Eddington, il primo ad avere fiducia nelle teorie dello scienziato. L’esordio al cinema è della metà degli anni ’90, in Prince of Jutland (1994) di Gabriel Axel, al fianco di Gabriel Byrne, Hellen Mirren e Christian Bale, rilettura di Amleto. Tre anni dopo, Serkis è in Loop, una commedia di Allan Niblo, al fianco di Susannah York. Sempre lo stesso anno è Mike Leigh a puntare su di lui. Lo vuole in Ragazze e, due anni dopo, lo chiama per Topsy-Turvy. Grandi soddisfazioni, ma in ogni caso la carriera di Serkis, con quel viso dai lineamenti così marcati, con quella mimica facciale buffa e particolarissima, sembra destinata a ruoli di comprimario caratterista. La svolta arriva con l’occasione che gli offre Peter Jackson, che lo contattata per la parte del Gollum nella saga de Il Signore degli anelli. E’ l’occasione per testare, con mezzi economici ingenti, la tecnica della motion capture, che converte i
movimenti e le espressioni degli attori in personaggi digitali, completamente ricreati a computer. Ricoperto da una specie di calzamaglia ricoperta di marcatori, Serkis viene catturato da decine di videocamere ed espropriato così del suo corpo, che, grazie alla computer graphic, si tramuta. E’ l’alba del nuovo millennio. E probabilmente un momento fondamentale nella storia del cinema. Il successo planetario del film di Jackson pone alla ribalta mondiale le nuove meraviglie digitali e, soprattutto, dà enorme notorietà all’esperimento di Serkis, che da più parti viene acclamato per la sua ‘interpretazione’. Vince l’MTV Movie Awards per la miglior performance virtuale e pone in serio imbarazzo l’Academy Award, pressata da molti per concedergli la nomination a miglior attore non protagonista. Ma, nonostante i pareri discordanti, la strada per gli Oscar gli viene sbarrata. La macchina, si dice, è troppo più importante dell’uomo e le meraviglie del Gollum non sono merito dell’attore, ma del progresso tecnico. Ma per Serkis è solo il primo atto di un nuovo percorso, assolutamente personale e per certi aspetti dirompente. Perché l’attore britannico abbraccia a piene mani l’innovazione della motion capture e, nel 2005, si trasforma in King Kong, sempre sotto l’egida di Peter Jackson. Un’altra meraviglia che sembra congiurare contro l’ansia/mancanza del corpo propria del cinema, ma che in realtà ne esplora e ne ridefinisce limiti e durate. Il duo Jackson e Serkis, di pari passo con le intuizioni di Robert Zemeckis (Polar Express è del 2004) viene a indicare uno dei percorsi fondamentali del cinema contemporaneo. Un percorso tracciato sulla (non) pelle di Serkis e destinato a condurre all’apoteosi di Avatar di Cameron, film di morti e palingenesi, di trasmutazioni reali e immaginarie, di visioni ancora possibili, di immensi apparati tecnologici che non possono far altro che rivolgersi alla realtà della carne e del sangue. Io ti vedo, oltre ogni cosa, oltre ogni magnifica trasformazione possibile, ti vedo nella tua essenza mortale. Ma Serkis non si accontenta di essere un apripista. Perché, ormai, la sua ossessione sembra essere totalizzante. Riafferma un’idea di cinema come artificio, illusione prospettica, inganno (é l’assistente di Tesla nel come sempre pretenzioso The Prestige di Nolan) e presta la sua voce per film di animazione (Giù per il tubo), si dona anima e corpo per la realizzazione di videogames. E, solo nell’ultimo anno, si immola alla motion capture in ben due film. Ne L’alba del pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt, Serkis è la scimpanzé Cesare, corpo digitale che si confronta con il corpo ‘reale’ di James Franco, in una sorta di passaggio di consegne dalla vecchia umanità alla pura immagine del nuovo millennio. E, sempre con lo zampino di Peter Jackson, è il capitano Haddock in Le avventure di Tintin di Spielberg, perfetto balletto di cinema in 3D, che celebra la sua definitiva autosufficienza. In più occasioni Serkis ha spiegato che la sua predilezione per la motion capture è una sfida: quella di poter far emergere e arrivare la propria recitazione oltre l’assenza del corpo, anche attraverso le maglie pericolose della computer graphic. Ma non è solo questione di sfide. Perché c’è una coerenza sotterranea nella carriera di Serkis, che ha come punto centrale proprio quest’idea, sovversiva, dell’interpretazione come disincarnazione. A intuirlo, più di ogni altro, è John Landis, che lo vuole in carne e ossa, al fianco di Simon Pegg, nel ruolo di William Hare in Ladri di cadaveri. E’ proprio sulla presenza 'paradossale' di Serkis che Landis fonda la sua parabola sull’essenza funebre del cinema. Su un corpo sempre assente che per un attimo si rende visibile in tutta la sua pienezza espressiva e trafuga altri corpi per mandare avanti lo spettacolo. Ecco la definitiva affermazione della poetica di Serkis. E’ l’uomo che non appare. Quindi, forse, non esiste. Ma anche se ‘appare’, ha sempre a che fare con la morte. Quindi, esiste. Come nell’ultimo Death of a Superhero di Ian Fitzgibbon, in cui interpreta un tanatologo, che accompagna verso la fine il giovane Donald. E’ con la morte, con l’assenza definitiva che il cinema fa i conti, nel suo affannarsi tra le zone d’ombra del visibile. E, ancor di più, tra ladri di cadaveri, avatar, nemici pubblici fantasmi inafferrabili, scommette sulla sparizione come l’unica apparizione possibile in un mondo che obbliga alla visibilità continua e uniforme. L’eclisse come unica vita ancora vera. E il corpo di Serkis, che si sottrae e si nasconde, per tramutarsi già nell’immagine digitale in cui ci stiamo trasformando, è proprio al centro di tutto. Immagine estratta dal divenire della materia, dalla sostanza mobile e inafferrabile della realtà. Al centro del cinema. Al centro del futuro.