"La setta dei dannati" di Brian Helgeland

Helgeland in poco trasforma uno spazio già visto miriadi di altre volte (quello della Roma all'ombra del Vaticano) in un perimetro angosciante e chiaroscurato, un labirinto in cui perdersi con i sensi, smarrendo ogni orientamento.

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Ne La setta dei dannati Brian Helgeland sembra proseguire almeno in parte il suo discorso "scritto", quello che affiora in modo sublime negli ultimi film di Eastwood (Debito di sangue, Mystic River) e che qui, dopo la parentesi di Destino di un cavaliere, torna con un ritmo fragile e interlocutorio, seducente per certi aspetti, scontato e pomposo per altri. Diciamo subito che questo bizzarro La setta dei dannati ci ha convinto subito, nonostante certe parentesi da dimenticare. Helgeland in poco trasforma uno spazio già visto miriadi di altre volte (quello della Roma all'ombra del Vaticano) in un perimetro angosciante e chiaroscurato, un labirinto in cui perdersi con i sensi, smarrendo ogni orientamento. Dalla prima sequenza in cui un sacerdote destinato poco dopo a morire percorre in bicicletta la via che conduce ai Fori Imperiali, sino alla sequenza in cui il protagonista assieme al sacerdote francese attraversa durante la notte intricatissimi dedali bui, Helgeland ci spinge in una sorta di archeologia gotica e affascinante di una Roma che, pur non possedendo il carisma astratto dell'Argento de Il cartaio, finisce per catturare i sensi, spingendoli in aeree delimitate dal vuoto, dall'abisso, dalla perdita di sé. In questo senso le pagine migliori del film sono proprio quelle in cui si perde costantemente ogni senso del presente, sfracellato in odissee che conducono alla bellissime sequenza del doppio sogno incrociato in cui il protagonista rivive la costruzione di San Pietro, ma anche a tutte quelle in cui ci si spoglia di ogni identità e si sperimenta il rischio dell'innamoramento, dell'andare fuori di sé (la sequenza in cui il giovane sacerdote si lascia andare tra le braccia della ragazza di cui è sempre stato innamorato). Helgeland costruisce in questo modo una ragnatela di sguardi, di corpi costantemente in bilico, accantonando spesso lo spessore del racconto (pur interessante, con il suo orientamento sempre labile tra fede e perdizione, sacro e profano) per lasciare andare lo sguardo su traiettorie che da un lato calcano forse troppo su una certa enfasi (tutte le sequenze in cui il mangia peccati confessa, perdona e uccide le sue anime), ma che dall'altro hanno senza dubbio la capacità di immaginare e dipingere un corpo (appunto quello di Heath Ledger) davvero sospeso, pura materia intermedia tra salvezza e dannazione, colpa ed espiazione.

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Titolo originale: The Sin Eater


Regia: Brian Helgeland


Sceneggiatura: Brian Helgeland


Fotografia: Nicola Pecorini


Montaggio: Kevin Stitt


Musiche: David Torn


Scenografia: Miljen "Kreca" Kiljakovic


Costumi: Caroline Harris


Interpreti: Heath Ledger (Alex Bernier), Shannyn Sossamon (Mara Sinclair), Benno Furmann (William Eden), Mark Addy (Thomas Garrett), Peter Weller (Driscoll), Francesco Carnelutti (Dominic), Mattia Sbragia (Vescovo indifferente), David Ambrosi (demone), Luigi Basagaluppi (padre di Eden)


Produzione: Craig Baumgarten, Brian Helgeland, Giovanni Lovatelli per 20th Century Fox, Baumgarten Merims Productions, N1 European Film Produktions & Co


Distribuzione: Twentieth Century Fox


Durata: 102'


Origine: Germania/Usa, 2004

 

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