"La sorgente del fiume", di Théo Angelopoulos

La saturazione stilistica segue la fissità del cinema arcaico, la trasparenza del cinema classico, la conservazione del piano sequenza. È il punto d'equilibrio che Angélopoulos auspica di trovare tra Welles e Sokurov: straripanti cesure "addizionali" di segni e l'interiorità che sì (ri)vela nell'enigma della storia.

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Muovere la macchina da presa è affare di morale, di un’etica che si fa estetica o, ancora, di una tecnica che si fa metafisica. Lo stesso Angelopoulos, probabilmente, avrà mosso la macchina qualche volta per diletto, per sgranchirsi gli occhi, o forse solo perchè la morale è sempre un affare ambiguo, incerto, irrisolto. È il primo capitolo di una trilogia dedicata al secolo trascorso e la Grecia dell’autore incarna la tragedia che inscena l’annientamento della volontà. Il nulla della fine che si fa nulla dell’inizio. È il fondamento nichilistico della volontà che perviene alla realtà tessendo un intero mondo illusionistico, solo in forza di un inganno metafisico. Smascherato il quale, non si ha incremento di consapevolezza e di sapere, ma puro e semplice ritorno al grado zero dell’esperienza. Nessun movimento progressivo, qui, nessuna trascendenza. La saturazione stilistica segue la fissità del cinema arcaico, la trasparenza del cinema classico, la conservazione del piano sequenza. È il punto d’equilibrio che Angelopoulos auspica di trovare tra Welles e Sokurov: straripanti cesure “addizionali” di segni e l’interiorità che sì (ri)vela nell’enigma della storia. La filosofia del tragico trapassa la poetica della tragedia. È l’idea di essa che pregna la visione del passato e non è soltanto oggetto filmico. Chi scappa dalle terre in guerra affolla i teatri del mondo e stende sipari bianchi e illibati sulle sponde di acque in piena. Lo sguardo di un giorno nell’eternità di un piano sequenza. La ricerca dell’innocenza perduta diventa rimpianto su tutto ciò che non abbiamo vissuto e che c’è scivolato accanto. Il cinema del “plan” mostra l’enigma e non lo svela. Indica e vela il mistero dell’interiorità e il mistero altrettanto nascosto dell’identità. L’identità è irraggiungibile e il “plan” è il modo giusto non tanto per designarla, definirla, scioglierla, spiegarla, quanto per aspettare che appaia sullo schermo un qualche suo indizio e segno: anche una labile traccia che il piano sequenza, nel suo durare, nel suo saper aspettare, nel suo guardare a lungo, riesce a custodire. Elegia del destino umano che sì “serve” di una storia d’amore, di corpi consumati dallo sfondo di un film-saggio: racconto smembrato e riflessione magmatica. A distanza dal vero, il cinema di Angelopoulos, è un fertile controsenso: ogni carezzevole e geometrico tocco ha l’ambiguità di un eccesso di senso o di un’incertezza del senso, così da rendere ancora più oscura la realtà oggettiva.

 

Titolo originale: To livadi pou dakrizi

 

Regia: Théo Angelopoulos

 

Sceneggiatura: Théo Angelopoulos, Tonino Guerra, Petros Markaris

 

Fotografia: Andreas Sinanos

 

Montaggio: Giorgios Triantafyllon

 

Musiche: Melene Karaindrou

 

Scenografia: Giorgios Patsas

 

Costumi: Ioulla Stravidou

 

Interpreti: Alexandra Aidini (Heleni), Nikos Poursanidis (Alexis), Giorgos Armenis (Nikos), Vasilis Kolovos (Spiros)

 

Produzione: Classic SRL., Bac Films/Intermedias, Théo Angelopoulos Productions, Rai Cinema

 

Distribuzione: Istituto Luce

 

Durata: 145′

 

Origine: Grecia/Italia/Francia, 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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