Sulle tracce lasciate dai kurdi Nizamettin Ariç e Hiner Saleem, lo sguardo del regista israeliano non completa il giro, non è pronto a porre fine all'inganno: dinanzi alle sbarre si blocca, si fa rettilineo, crea una linea immaginaria che prende direzioni opposte, lasciando un solco tra la realtà sensibile e quella intelligibile del comando.
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Muri invisibili tra un'etnia e l'altra che t'illudi di attraversare fin quando non interrompi il cammino dinanzi a delle sbarre alte e insormontabili. Lo spazio è il limite immobile che attanaglia il corpo bianco: dove non c'è quel corpo non c'è spazio per immaginare squarci di libertà agognati. La sposa apolide (la Comunità Internazionale non ha ancora riconosciuto legittima l'occupazione da parte israeliana delle alture del Golan, terre siriane fino al 1967) potrebbe essere kurda, cecena, palestinese, sta per sposare un attore di sit-com di Damasco proprio nel giorno della nomina di Bachar a Presidente della Siria (dopo la morte del padre Assad nel 2000). Perché il matrimonio abbia esito, bisogna attraversare il confine, andare oltre gli ostacoli della chiusura e del dispotismo. Ma una volta oltrepassata la frontiera non si può più fare ritorno: è questo il destino dei popoli privi di autodeterminazione, in eterno esilio, costretti sempre a partire, separarsi, perdere e soffrire. Questo è il destino dei Drusi che si sentono siriani ma che patiscono da oltre trent'anni l'occupazione israeliana. Finchè morte non separi quel che la vita ha unito, risuona ancora di più come anatema: nella gabbia presidiata dall'esercito la famiglia della sposa si ritrova dopo anni di separazioni forzate, per salutare l'ultima volta chi ha scelto di riprendersi l'identità negata. Ritornare sulle tracce lasciate da registi come Nizamettin Ariç o Hiner Saleem, kurdi in esilio che non mostrano assolutamente nulla dei drammi politici della propria terra, ma li fanno intuire attraverso le tragedie che si confondono tra le relazioni sociali. È tutta mentale anche la tragedia dei Drusi che trovano il riscatto sul limite materiale del confine, zona franca del sogno liberatore. Come la "Free Zone" di Amos Gitai, sospesa e assurda, campo ristretto che non cede un centimetro di libertà oltre il conflitto confinato ma infinito. Cinema non definitivo, incompiuto, perché impossibile sarebbe scandagliare i percorsi frammentati, discontinui e rivelatori della storia e della memoria, intrappolate nel contemporaneo di aree caoticamente amorfe. Il cinema non segue la sposa, si (ri)vela ancora di sfiducia nel seguirla verso nuovi spazi di presunte opportunità e libertà. Lo sguardo del regista israeliano (autore televisivo al suo secondo lungometraggio, realizzato grazie ad una coproduzione franco-tedesca e vincitore allo scorso Locarno del premio del pubblico) non completa il suo giro, non è pronto a porre fine all'inganno: dinanzi alle sbarre si blocca, si fa rettilineo, crea una linea immaginaria che prende direzioni opposte, lasciando un solco tra la realtà sensibile e quella intelligibile dei tiranni.
Titolo originale: The Syrian Bride
Regia: Eran Riklis
Interpreti: Hiam Abbas, Makram J. Khoury, Clara Khoury, Ashraf Barhoum, Eyad Sheety, Evelyne Kaplun, Julie-Anne Roth,
Distribuzione: Mikado
Durata: 97'
Origine: Francia, Germania, Israele, 2004
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