La stanza del figlio, di Nanni Moretti

L’ultima palma d’oro vinta dal cinema italiano la dobbiamo a Nanni Moretti, con un film sul lutto, che rivisto oggi sembra un punto di svolta per un percorso umanista più “aperto” e universale.

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Nel 1997 Nanni Moretti fece parte della giuria di Cannes che premiò ex-aequo L’anguilla di Shoei Imamura e Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami. La sera della premiazione in un’intervista andata in onda a un Tg nazionale, il giurato Moretti disse che i suoi film preferiti in concorso erano quello di Kiarostami (c’erano dubbi?), Tempesta di ghiaccio di Ang Lee e Il dolce domani di Atom Egoyan (che lo stesso Moretti avrebbe programmato mesi dopo al suo Sacher). La cosa a quanto si dice non piacque a Marco Bellocchio, che era in concorso con Il principe di Homburg e non venne mai preso in considerazione per la vittoria finale. I tre film indicati da Moretti erano riflessioni sulla morte. Nello specifico sia quello di Ang Lee sia quello di Egoyan ruotavano intorno alla scomparsa dei figli. Moretti ha sempre detto che il soggetto iniziale de La stanza del figlio venne scritto almeno cinque anni prima la sua realizzazione. Forse l’ispirazione definitiva per immergersi nel progetto venne anche da quelle visioni di Cannes. E forse non è un caso che proprio Cannes incoronerà La stanza del figlio nel 2001, quasi a concludere un itinerario.

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Dobbiamo infatti proprio a Moretti l’ultima Palma d’oro vinta dal nostro cinema, riconoscimento che il regista romano aveva già in qualche modo sfiorato nel 1994 con Caro Diario. Moretti ci arrivò dopo i suoi due film più limpidi e autobiografici. Per lui fu quindi un ritorno a un cinema di fiction intimista, che aveva sperimentato soprattutto negli anni ’80 con i titoli sceneggiati con Sandro Petraglia (Bianca, La messa è finita). A ogni modo, oggi, La stanza del figlio sembra un film scritto e pensato quasi in opposizione al precedente Aprile. Se quest’ultimo raccontava una nascita (Pietro, il vero figlio di Moretti), una vittoria politica (la sinistra che trionfa alle elezioni del ’96) e l’affermazione di un rapporto di coppia (quello del cineasta con l’allora compagna Silvia Nono), configurandosi ancora oggi come l’episodio più rappacificato e “libero” – dal punto di vista dell’antistruttura narrativa – della filmografia morettiana, La stanza del figlio è un film sul lutto, sulla conseguente crisi della famiglia e sul controllo dello spazio e della scrittura (sceneggiatura firmata insieme a Linda Ferri e Heidrun Schleef).

È forse per questo che a distanza di anni appare paradossalmente come uno dei titoli visti quasi con diffidenza tra i fan dell’autore. Come se l’aura da “classico”, indissolubilmente legata al trionfo di Cannes e all’ampia distribuzione internazionale, ma anche alla compattezza e a una inconscia monocromia del film, lo avessero reso negli anni un oggetto filmico fin troppo cupo e intellegibile, meno “misterioso” di altri.

Al tempo apparve a tutti l’approdo compiuto dell’autore Moretti e il trionfo a Cannes – ma ci furono anche tre David di Donatello – tutt’altro che inaspettato. Eppure forse sarebbe più stimolante leggere La stanza del figlio non tanto come il traguardo di una definitiva maturità (che pure è innegabile…è il suo film più pensato, ma anche uno dei più emozionanti) quanto il punto di svolta per qualcos’altro, il primo tassello di una pagina filmografica che nel XXI secolo si sarebbe progressivamente concentrata su un rinnovato rapporto con i corpi attoriali. Qui ad esempio lo psicoanalista Giovanni Sermonti porta con sé ancora le ossessioni di Apicella/Moretti ma esse dialogano costantemente con i due strepitosi personaggi femminili del film, la moglie Paola (Morante) e la figlia Irene (Trinca), che non solo aumentano la portata umanista del cinema del nostro, ma anzi la sostanziano apertamente, ereditandone tic e scelte morali. In loro ci sono già il produttore e la regista de Il caimano, il papa di Habemus papam, la cineasta di Mia madre…tutti ruoli morettiani senza più Moretti, relegato in queste opere a un ruolo da non protagonista. Insomma La stanza del figlio è forse il primo testo morettiano a focalizzazione plurima, dove la soggettività dell’autore si disperde in un affresco sociale e metaforico più ampio. Da questo momento in poi il fallimento e il dolore non appaiono più isolati al “personaggio Moretti” o alla sua generazione, ma assumono contorni più universali e allucinatori presagendo le apocalissi collettive delle opere successive.

Regia: Nanni Moretti
Interpreti: Laura Morante, Nanni Moretti, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando
Durata: 95′
Origine: Italia, 2001
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.83 (6 voti)
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