La terra buona, di Emanuele Caruso

Uno sguardo carico di un pessimismo proficuo che vuole recuperare dalla montagna non i concetti arcaici di un sapere perduto, ma la consapevolezza di una parziale sconfitta.

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C’è chi, con pazienza, riesce a coniugare una naturale e non retorica naiveté con il desiderio di raccontare un’utopia terrena, ancora forse, minimamente possibile, prima che se ne perda la memoria e ogni Shangri-La vada a farsi benedire divenendo l’Atlantide sconosciuto delle nostre emozioni.
Emanuele Caruso, giovane e ostinato filmaker di Alba, affidandosi alla forza delle proprie caparbie intenzioni e ad una vicenda che, pur con qualche difetto di sceneggiatura, riesce a lavorare di fantasia, incrocia tre storie reali che mai, nella realtà dei fatti, tra di loro hanno avuto a che vedere, raggiungendo il risultato di concludere un film che proprio per la sua minuscola consistenza produttiva, costituisce un piccolo miracolo di lievitazione di ogni suo elemento. Un piccolo miracolo, appunto, come accade quando si cucina con quattro ingredienti poveri un piatto che moltiplica i sapori.
In un posto ideale, chiamato Monte Paradiso (ecco forse un altro nome, meno, come dire? simbolico, avrebbe giovato) un vecchio padre benedettino, realmente esistito, Padre Sergio, vive da eremita con un tuttofare, Gianmaria e la sua povera asina Dolores. In questa piccola e poco regolata comunità c’è anche Rubio esperto di volo ma che forse è fuggito da qualcosa e chissà come è finito lì e poi un dottore, Mastroianni, detto Mastro, che volendo curare il cancro con un medicinale di sua invenzione ricorda il dottore della canzone di De Andrè. In questo posto finiscono anche Giulia, che però si fa chiamare Gea, e Martino, i due sono solo amici. Lei è malata e sul Monte Paradiso spera di guarire, lui vuole solo accompagnarla, non ci crede molto e vuole tornare al suo inferno da disoccupato metropolitano.
Caruso mescola le carte della finzione con quelle della realtà. Vero è padre Sergio e la sua biblioteca in valle Maira, in cima al mondo con più di sessantamila volumi, vera è Giulia e vero è il medico, il resto, forse è invenzione, ma non importa.
Sfuggendo a qualsiasi genere, a qualsiasi cliché che possa considerarsi o meno consolidato, con un racconto sospeso tra un lirismo del tutto plausibile e mai

insistito e un desiderio di fare un cinema di sguardi, di sensazioni non percepibili e che serva anche a concedere un occhio alla magnificenza di paesaggi che diventano parte di un’anima narrativa, Caruso riafferma la chiara volontà di fare un cinema autarchico, indipendente, scevro da ogni malizia narrativa e pur con i suoi difetti, il suo film appare velato da una luce non comune. La terra buona è un film che appare sinceramente illuminato dalla voglia del racconto di persone e di luoghi, senza esagerazioni, guardando ai problemi, alle difficoltà e senza poetizzare scelte dettate dalla necessità, piuttosto che dal desiderio di un isolamento dalla routine del mondo. È così, su queste fondamenta del tutto concrete, che il film di Caruso non si caratterizza come un racconto di una malattia e ancora meno come il percorso di una guarigione, non è neppure un film sull’ascetismo risolutivo alla frenesia del moderno e non si trasforma neanche in un film arroccato su una deriva pauperista e orgogliosamente montanara. La terra buona, con questo titolo così olmiano, sa essere anche un film ruvido, a volte cattivo e in questo la sua piccola vena preziosa e il suo navigare controcorrente. Nel clima non sempre conciliante finalmente gli abitanti di un piccolo borgo ai piedi delle montagne non sono buoni e pieni di sentimenti antichi e profondi, sono solo degli stronzi invidiosi, maligni e insolentemente prepotenti e le istituzioni sono marce anche a quelle altitudini.
In questa carrellata di piccoli eventi si ritrova quella sincerità di cui dicevamo e nessun lirismo da captatio benevolentiae dello spettatore e allora si che ci piace vedere i panorami delle Prealpi piemontesi, si che amiamo la pace che occasionalmente si viene a creare in quel Monte Paradiso che così paradiso in fondo non è, visto che Gea sta forse trascorrendo in quel luogo gli ultimi giorni della sua vita con Mastro che non sa che pesci prendere perché la malattia è avanzata.
Ma in fondo cosa è un film come La terra buona? Solo un originale capriccio produttivo o un distinguersi con un racconto del tutto controcorrente, ancorato ad un desiderio di arricchire la biodiversità del cinema? Cioè una specie di raffinato racconto televisivo, ma pur sempre da prima serata? In realtà nulla di tutto questo, piuttosto uno sguardo carico di un pessimismo proficuo che vuole recuperare proprio da quella terra non i concetti arcaici di un sapere perduto, ma la consapevolezza di una parziale sconfitta. E ci pare di dovere dire che fosse ora finalmente che si arrivasse a parlare anche di sconfitte. Purtroppo non è sufficiente l’amore, la dedizione del medico Mastro a guarire i mali di Giulia e non è sufficiente credere in qualcosa di superiore e di magicamente taumaturgico che sembra doversi trovare tra la pace di una montagna quasi inviolata a fermare il male. Nulla di tutto è sufficiente per mutare il corso delle cose. In questo diventa catalizzatore il personaggio di padre Sergio che fuma e pensa anche alle cose terrene come viatico per una spiritualità tutta interiore. Tutto questo può solo quindi e solo minimamente spostare le coscienze, fare deviare il cammino e senza enfasi Caruso lo racconta. In questo si intravede quella consapevole presa di coscienza che diventa pessimismo proficuo in quella terra buona che resta terra a guardare il male degli uomini.
Caruso raccoglie in questo suo tragitto un’eredità di quel cinema italiano che minimale nelle forme, si fa gigantesco nei contenuti e che da Olmi a Piavoli, con le dovute e considerevoli differenze, costituisce un prezioso patrimonio di riflessione, una ricchezza mai dimenticata del cinema italiano. Caruso che aveva già lavorato, seppure con una certa approssimazione, sulle ipocrisie e le meschinità dei microcosmi delle sue Langhe, nel precedente E fu sera e fu mattina, continua qui la sua opera di ricerca di quelle contraddizioni esistenziali che sembrano necessarie. Ma questa volta lo fa con coraggio, senza l’ansia di dovere spiegare, comprendendo che l’immagine anche nel silenzio dell’apparire, assolve, quando è buona, alla didascalica consistenza della parola.
È così, con queste intenzioni, che La terra buona trasforma il racconto di un fallimento dalla salvezza dalla malattia, in progressiva mutazione dell’anima, il che non vuol dire salvare necessariamente il corpo.

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