"La tv mangia i generi, il cinema li perde. E quando perdi i generi…". Incontro con Francesco Nardella (seconda parte)

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La televisione è norma – come prodotto medio o come regola? Quali cambiamenti di scenario arrivano dal 3D e dal nuovo status che la tv ha acquisito sulla scena mediatica? Qual è la relazione tra genere e iperrealismo? Ne abbiamo parlato con Francesco Nardella, capostruttura Rai Fiction. Tra Cameron e Un posto al sole, Coppola e Dexter
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Francesco NardellaDavanti alle serie d’autore, alla proliferazione dei remake di telefilm, allo status conquistato da molti prodotti televisivi, al ruolo della fiction nei festival, possiamo pensare che la tv faccia da traino al cinema e parlare di arte in televisione? Ecco la seconda parte (qui la prima) dell’intervista a Francesco Nardella, capostruttura Rai Fiction. Tra i prodotti cui ha lavorato ci sono Un posto al sole, La nuova squadra, Colpi di sole, Chiedi la luna di Giuseppe Piccioni ed Ecco fatto di Gabriele Muccino.
 
A proposito di cinema. Tu hai prodotto due film, Piccioni e Muccino.
“Dovevano essere dei tv movie, ma durante la produzione ci siamo accorti che avevano delle potenzialità cinematografiche: soprattutto Ecco fatto, che era molto “di target”. Lavoravo con Procacci e a un certo punto ci siamo detti: cerchiamo un distributore? Nel caso di Chiedi la luna, invece, fu proprio un distributore a vederne la potenzialità da grande schermo. Sono nati come operazioni televisive un po’ atipiche – a me piace molto il tv movie, è un formato tattico, ti permette di fare molte cose. Anche di unire le due prospettive”.
 
Tendiamo a pensare che l’arte sia confinata al cinema, e a vedere la tv come norma – nel senso di prodotto medio sul piano artistico. Secondo me la fiction è anche un prodotto normativo, nel senso che detta le regole. Penso alle panoramiche di CSI Miami e ho la sensazione che la tv sia diventata una specie di avanguardia tecnologica e creativa. Secondo te è così?
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CSI Miami
“Sicuramente sì sul piano della tecnologia delle storie. La scrittura oggi è complessa, perché il pubblico dei cable americani è più maturo rispetto a quello cinematografico, che è fatto soprattutto di teenager. E’ così anche dal punto di vista del montaggio, più che della regia. Non a caso il cinema smarca usando il 3D…Detto questo, nel nostro paese molte energie creative si sono concentrate sulla tv perché il cinema italiano – tranne casi singoli, che si contano sulle dita – è secondo me molto inferiore alla tv. E' molto meno pensato, meno strutturato e con più pretese di autorialità, anche quando l’autore non c’è. Quando vedi le polemiche di Faenza su Avatar ti chiedi: ma cosa ha rappresentato Faenza nell’immaginario collettivo? Io non posso andare al cinema a vedere la televisione. A quel punto resto a casa. E oggi al cinema vedi spesso cose televisive, ma senza quella potenza – anche un po’ tamarra – di condivisione dell’immaginario di un paese. E’ televisione, ma per pochi. Un paradosso”.
 
James Cameron è convinto che il 3D entrerà nelle case, prima che nei cinema. Le tv si stanno strutturando in questo senso, almeno per certi generi di spettacolo. La Disney annuncia l'uscita dei primi film home video in 3D
“Non so quanto possa funzionare su uno schermo televisivo. L’esperienza del cinema 3D è notevole, è una tecnologia nuova e devi imparare ad usarla. Ma ogni tecnologia ha un rapporto con quello che racconti: altrimenti è solo la meraviglia, è il caleidoscopio, è il circo, e dopo tre volte è finita. Funziona se, invece, diventa corpo del racconto. Coppola lo aveva capito molto bene in Un sogno lungo un giorno: ha usato la tecnica applicandola al racconto”.
 
Ancora sull’ipotesi della tv che traina il cinema. Pensiamo al suo status attuale sulla scena mediatica: nasce un Festival della fiction, Dexter viene presentato al festival di Courmayer. Proliferano i remake (Sex and city, Miami vice, Starsky e Hutch, Dallas, Magnum PI). Un regista come William Friedkin dirige episodi di CSI, Dario Argento lavorava per la TV già negli anni Settanta.
Chinatown“La figura del produttore televisivo ha riacquistato un valore simile a quello che aveva nel cinema classico e questo ha stimolato le componenti creative. Hai citato Dexter: io ho visto l’ultima serie, ancora inedita in Italia. E’ una riflessione fortissima sul nero che è dentro di noi, ma usa la commedia: la trovo estremamente sofisticata, e la scelgo rispetto al cinema contemporaneo. Se devo vedere un thriller, oggi trovo di meglio in tv: pensa a una serie come Wallander, che è tratta da un best seller norvegese ed è coprodotta da inglesi e svedesi. E’ molto cinematografica, molto forte, anche come temi. La tv mangia i generi, il cinema li perde. E quando perdi i generi sei nella merda. La tv ha ereditato la forza del cinema, il genere: un patrimonio che viene completamente abbandonato in Italia, e deve essere riscoperto da Tarantino. La tv ha turato quel buco perché l’esigenza di ascoltare storie nere, d’amore, paurose è quasi genetica, non puoi negarla. Pensa a come è fatta l’Italia. Ci sono paesini dove non c’è il cinema, dovresti fare venti chilometri per arrivarci. Cosa fai? Queste persone non hanno il diritto di avere delle storie? E’ un bisogno primario, non è una cosa aggiuntiva. E quando lavori sui generi ti devi scervellare per reinterpretarli. Ad esempio, stiamo lavorando – con Umberto Contarello e Renato De Maria – a una storia che si chiama Il segreto dell’acqua. Vogliamo una variazione sul poliziesco, raccontare la Sicilia e la mafia in modo diverso. Il protagonista è Riccardo Scamarcio, che esordisce in una produzione televisiva Rai. Interpreta un analista della DIA che lavora a Roma, fa uno sbaglio e viene mandato per punizione in Sicilia, in un commissariato. Lui è siciliano ma ha rinnegato le sue origini, perché è figlio illegittimo di un mafioso. C’è una donna… Il tutto ha a che fare con l’acquedotto di Palermo. E’ una serie sofisticata, però è anche molto carnale. Questo personaggio in origine aveva l’anemia falciforme. Dopo una serie di stesure, ci siamo accorti che era diventato molto “ricco” e non ce n’era più bisogno. Quel tratto era come un’impalcatura per costruire un palazzo. E c’è ovviamente un riferimento a un film, Chinatown. L’intrigo, quello che succede “sotto”, perché l’acqua non arriva, perché è deviata… C'è un gran lavoro di pensiero, di elaborazione e rielaborazione. E siamo sul genere!”.
 
Che è, appunto, anche il segreto di fiction come Un posto al sole. Il melodramma.Un posto al sole
“Io amo lavorare sul genere e dentro il genere, con le variazioni. Poi è chiaro, fai sempre riferimento al cinema, alla letteratura…ad altre storie”.
 
La fiction di Rai Tre somiglia a Rai Tre, è incentrata sul racconto, sul vissuto. In una dichiarazione su Colpi di sole, hai parlato di iper-realtà. Intendi qualcosa di simile all’iperrealismo? Non una riproduzione, ma qualcosa di più rispetto a quello che puoi vedere…
“Credo sia molto importante fare cose pensate per il canale che le veicola, per il canale che le potenzia. Mi riferisco al confronto con la realtà, al discorso sulla realtà che Rai Tre porta avanti. Fare questo può diventare molto difficile in casi come quello di Un posto al sole: bisogna unire due prospettive…Ovvero utilizzare i grandi meccanismi, come il mélo, innestandovi delle cose completamente diverse, imbastardendoli con la realtà. Diventa allora iper-realtà. Non è neorealismo perché la realtà viene pompata, ipervitaminizzata. Altrimenti sarebbe inaccettabile per lo spettatore: chi vede ha un atteggiamento “aspirazionale” verso i personaggi, ti devi identificare, non puoi aspirare alla tristezza. Del resto è così anche nella fantascienza. Battlestar galactica è una soap opera…pensa alla fantascienza sociologica, a scrittori come Ballard. A Star trek, che va dai meccanismi shakespeariani al doppio, alla diversità. E’ una serie interamente fondata sulla rappresentazione del comando, è una grande metafora della politica vera – mettere insieme esigenze diverse”.

LA PRIMA PARTE DELL'INTERVISTA
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