La valanga azzurra, di Giovanni Veronesi

Dopo una prima parte di grande epica sportiva, il film cede il passo a retroscena che stonano, tentativo di creare del mistero su una storia che non ne ha proprio bisogno. RoFF 19. Special Screenings

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“Regista, sciatore fallito” recita il sottopancia di Giovanni Veronesi all’inizio de La valanga azzurra, documentario dedicato alla nazionale italiana di sci che ha conquistato il mondo negli anni ‘70. Il film, presentato alla 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Special Screenings, inizia proprio con un prologo nel quale Veronesi stesso racconta la sua passione nei confronti di questo sport, coltivata da bambino con il padre grazie soprattutto ad alcuni atleti che in quel periodo resero lo sci uno degli sport più popolari d’Italia. Anni inimmaginabili, in cui i poster in camera non erano quelli dei calciatori, ma di Niki Lauda, di Adriano Panatta, o, per l’appunto, di Gustav Thöni, Piero Gros e Paolo De Chiesa.

Questi ultimi sono alcuni dei membri della Valanga Azzurra, individuati come i più rappresentativi. Thöni è il più silenzioso, ma anche il più forte e vincente, capace di rivoluzionare il modo di sciare. Gros, più estroverso, colui che più di tutti ha sfidato il suo dominio, talvolta infrangendolo. De Chiesa il collante del gruppo, non particolarmente vincente, ma indispensabile.

La prima metà del film è entusiasmante, con le interviste di Veronesi ai suoi idoli di infanzia che si alternano alle immagini di repertorio, trasformando ogni discesa sulla neve in epica. Campi lunghi mozzafiato, innevati, in cui l’eroe lotta contro il tempo, come il Robert Redford di Corvo rosso non avrai il mio scalpo!. La ricostruzione è peraltro estremamente precisa, dando a chiunque, anche ai meno avvezzi, la possibilità di appassionarsi alle carriere dei protagonisti, ai loro trionfi e alle loro sconfitte.

Un documentario che potrebbe somigliare a Una squadra di Domenico Procacci, che ha collaborato alla scrittura, oltre che prodotto, La valanga azzurra, ma che fallisce nella seconda parte. Da un certo punto il film sembra infatti perdere la bussola, iniziando ad affrontare tutta una serie di dietro le quinte che poco hanno a che fare con lo sport. Pettegolezzi e dietrologie compaiono senza un’effettiva funzionalità rispetto alla narrazione, con il regista che chiede conto agli intervistati di questioni irrilevanti. Il tutto fino ad una scena sul finale, in cui un fattaccio legato a De Chiesa, viene strumentalizzato per alimentare quest’alone di mistero totalmente superfluo attorno al racconto, rispetto a cui non ha alcuna attinenza.

Veronesi peraltro, dopo un inizio in cui si mostra, esempio di un’intera generazione cresciuta in quel mito, resta troppo presente nel resto del documentario fino a diventare ingombrante. Sembra quasi non voler lasciare davvero lo spazio ai protagonisti, con momenti in cui le domande che pone prendono il sopravvento sulle successive risposte, quasi più interessato ai propri primi piani che ai vari Thöni e Gros. Dopo aver aiutato lo spettatore a connettersi con la storia raccontata – e questo in sé è un ottimo spunto –  non esce più di scena. E, nonostante l’inizio, non è mai il protagonista, non parla mai di sé, creando una strana sensazione di scollamento tra quello che si vede e quello che il film sta raccontando.

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)

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