La vita è bella, di Roberto Benigni

Pieno di gag visive e verbali, di una comicità magica. Ma colpisce soprattutto l’assoluta serietà, lo sgomento del dolore, le smorfie di un folletto catapultato nell’orrore.

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Non fidatevi di quello che diranno o scriveranno. Tutta ipocrisia. A nessuno, dei “critici”, piacerà “sul serio” La vita è bella. Come farete allora a capire che “mentono”? Basterà leggere gli articoli “di traverso” (o non leggerli affatto). Di traverso? Si. Gli faranno gli elogi del caso, diranno che è un’opera delicata e profonda, che tocca il cuore e le emozioni, diranno questo e altro ma mentiranno. E per riconoscere chi lo farà basterà trovare, negli articoli, i paragoni con Chaplin (oddio!) e Il grande dittatore (che fantasia!), e, soprattutto, alla fine troveranno qualche piccolo, insignificante problema “cinematografico”, robette del tipo fotografia, montaggio, sceneggiatura, personaggi perduti, e così via. Cioè, in definitiva, senza dirlo, lo stroncheranno. Ma non avranno il coraggio di farlo “pubblicamente”. Sarebbe come schierarsi dalla parte degli aguzzini nazisti… e invece sappiamo bene che la critica nostrana è tutta ulivista-buonista-antifascista.
Ma in realtà non lo ameranno. Perché non possono farlo. Perché per amare La vita è bella bisogna, per prima cosa, amare la propria di vita. E mica è così facile, bisogna pur guardarsi in faccia ogni mattina. E Benigni è uno di quelli che al mattino, allo specchio, si sbellica dalle risate. A guardare la sua faccia da giullare, prossimo premio Nobel italiano, e chissà per quale disciplina… (piuttosto diremmo… indisciplina).
La vita è bella è il più sorprendente, tenero e dannatamente bello dei film di Roberto Benigni. Ma non perché riesce a far ridere anche nell’inferno dei campi di concentramento mostrando una presunta “superiorità morale” del comico. Al contrario. Proprio perché, ad un certo punto, non ce la fa più. E lo sforzo di Guido/Benigni per raccontare l’abisso in cui è precipitato al figlio, facendogli credere che sia tutto un gioco, diviene impossibile. E, paradossalmente, più che il suo essere “comico” è l’infinita disponibilità dell’ “essere bambino” ad accettare una realtà capovolta che rende ancora possibile una speranza, una via d’uscita. Alla fine Guido muore, ma non è vero, perché Guido/Benigni diviene il bambino, e da quella morte rinasce in un corpo altro (ma pur sempre suo).
Eppure Benigni, per un bel po’, ha giocato le sue carte come sempre. E tutta la prima parte del film, ambientata in una provincia toscana durante gli anni ’30, è un campionario dei suoi film passati, riveduti e corretti, miscelati con alcuni “furti” meravigliosi. Furti/omaggi, da vero “ladro di cinema”, operati/dedicati al suo grande amico Massimo Troisi, cui Benigni ruba, in maniera del tutto “gratuita” e perciò geniale, la scena dell’inseguimento/corteggiamento di Ricomincio da tre, ma anche un po’ tutta l’atmosfera di Le vie del signore sono finite. Il Guido della prima parte del film è un personaggio allegro e comunque positivo, sognatore e innamorato, come tutti i personaggi passati di Benigni. Che è l’unico cineasta/attore al mondo a potersi permettere di innamorarsi in ogni film della stessa donna, Nicoletta Braschi, ormai quasi l’archetipo della “femminilità benigniana” (?), in questo del tutto diverso dagli umori variabili di Troisi. Eppure questo suo gioco con Nicoletta ogni volta lo rivediamo e sempre funziona. Perché Benigni sempre, nei suoi film, s’innamora completamente, si perde dietro il volto della donna della sua (vera) vita. E solo così, forse, risulta credibile e assolutamente “vero”. Altrimenti sarebbe solo un bel gioco, che come tutti sanno, “dura poco” (vedi il caso di Nuti). Benigni non può che essere innamorato sempre della stessa donna, così come Topolino lo è di Minnie, Paperino di Paperina, Braccio di Ferro di Olivia, e chissà come mai ci vengono in mente solo degli esempi di cartoon. Forse perché come aveva lucidamente capito Blake Edwards nel suo stroncatissimo (e noi invece diciamo: bello!) Il figlio della pantera rosa, Benigni è un cartoon vivente, ha la forza inesauribile, l’imprevedibilità e le infinite possibilità che solo il disegno animato sa avere. Tutta la prima parte, quella ambientata ad Arezzo, è curiosamente come “implosa”. Come se si aspettasse da un momento all’altro l’esplodere della messa in scena, l’arrivo dei fascisti, o dei nazisti, insomma la Violenza della Storia. Benigni invece lascia spazio alla sua tenera e buffa storia d’amore, e per lungo tratto lascia sullo sfondo il regime, cui anzi conferisce come un alone di genuinità paesana. Non che ci sia qualche forma di “connivenza”, ma insomma ci si doveva pur vivere nell’Italia di quegli anni, e non per tutti era solo violenza e repressione. Magari era più lentezza burocratica, come ironicamente insinua Benigni nel confronto-scontro col funzionario addetto ai permessi commerciali (non a caso poi suo rivale in amore, più che in politica). E mostrare una burocrazia grigia e insensibile è assai più corrosivo (per l’immaginario nostrano) che non far vedere degli squadristi manganellare qualcuno. Perché significa giocare e prendere in giro quelli che erano i punti di forza del regime (ricordate Troisi e la puntualità dei treni sotto Mussolini? “E non bastava farlo capostazione?”….).

Benigni riempie di innumerevoli gag la sua messa in scena, gag visive, verbali, innervandole con dei giochi di prestigio di un romanticismo quasi infantile, e perciò incredibilmente sincero (basti pensare alla serata in auto tra Benigni e la Braschi, col tappeto rosso steso da Guido sulle scale per non farla bagnare, più degna di una coreografia di Busby Berkeley che non di un film comico). E i personaggi di contorno, quelli che nella seconda parte “spariranno” (ma non per dimenticanze o errori/limiti di sceneggiatura, ma perché gettati fuori dalla svolta narrativa del film), sono tutti così curiosamente “teatrali”, dallo Zio antiquario e ristoratore, dall’amico poeta, dalla direttrice integerrima, al funzionario fascista impettito (ma anch’egli formale e fuori dalle logiche “squadriste”, vedi l’intervento del suo ex commilitone in camicia nera al matrimonio con Dora). È come se Benigni in questa sua rappresentazione allegra della vita quotidiana del Ventennio avesse volutamente tenuto fuori la violenza, le grandi icone del regime (che infatti, anche scenograficamente, ma non per problemi di budget ma per pura scelta tematica, sono ai margini dell’inquadratura, ai bordi delle scenografie, ai lati del racconto), per narrarci invece uno spaccato di vita del tutto astratto e inconsueto, dove c’è lo spazio per la satira e la presa in giro senza che nessuno ci lasci le penne. Tutta la scena del discorso agli studenti sulla razza, oltreché una singolare autocitazione della sfilata de Il piccolo diavolo, è talmente demenziale e catacomica (e probabilmente più “forte” oggi, in epoca di espulsioni di immigrati, che addirittura non allora…) a non portare a Guido alcuna conseguenza di tipo repressivo (cosa che invece accade al Troisi di Le vie del signore sono finite), ma tutt’al più a scontrarsi col rivale in amore più per problemi personali (la gag ripetuta dell’uovo in testa ) che non certo per quelli politici.
Poi Benigni ricorre ogni tanto a dei momenti di pura comicità “magica”, come nel reiterato scambio di cappelli tra Guido e il tappezziere, che danno alla pellicola un alone di assoluta “leggerezza”, che è quella, meravigliosa e sensuale, del comico nella sua essenza più pura.
E fin qui Benigni ha realizzato il suo nuovo Piccolo diavolo, il suo nuovo Johnny Stecchino, piccoli grandi capolavori che solo il pubblico sa apprezzare. Ma, dopo Il mostro, Benigni ha evidentemente capito che per sconvolgere lo spettatore non basta più la risata, non è sufficiente inventare gag a spron battuto. Bisogna scaraventargli addosso il senso del ridicolo della storia, l’orrore e il terrore del mondo così come lo conosciamo (e la necessità assoluta, concreta e “immaginaria” di cambiarlo). Perché il problema non è il fascismo, il nazismo o la persecuzione degli ebrei, che Benigni utilizzerà alla grande sia nella scena del cavallo dipinto (che ri-utilizzerà nel rapimento alla Il laureato di Dora), e neppure nelle battute dette al figlio per le scritte sul divieto di accesso ai cani e agli ebrei dei negozi (“si vede che gli stanno antipatici… e noi allora metteremo vietato ai ragni e ai Visigoti….”). Il problema è il mantenere la propria personalità, la propria possibilità di scegliere lo sguardo, anche in presenza di un oppressione assoluta, come il campo di concentramento (anzi di sterminio) rappresenta meglio di tutti. Ed è qui che Roberto è straordinario nel non fare la parodia del genere. Si, ok, si diverte un po’ all’inizio, con quel gioco strepitoso sulla traduzione degli ordini dell’ufficiale di campo nazista ai prigionieri. E poi riesce a far sembrare quasi vero il racconto al figlio secondo il quale la prigionia è in realtà tutto un gioco al termine del quale chi realizzerà 1000 punti vincerà un carroarmato. Quello che invece colpisce è l’assoluta serietà, lo sgomento del dolore, le smorfie di un folletto catapultato nell’orrore, così abilmente rappresentati nei passaggi immediati dalla percezione reale che Guido ha del mondo in cui è stato scaraventato, e la traduzione “edulcorata” che si sforza di dare al figlio.
È proprio in questo passaggio, in questo scarto, quasi minimale ma incredibile, mutamenti di sorrisi, aperture degli occhi, attimi imperdibili di una “comicità attoriale” che diviene tragedia per elementi minimali, è appunto in questa differenza di sguardo, di consapevolezza, che sta la grandezza del film di Benigni. Che non è un film che ci invita a mentire ai bambini per fargli credere che il mondo sia diverso da quello che realmente è, ma che invece ci racconta la sofferenza interiore tra il “dolore” dell’essere adulto e la “meraviglia “ dell’infanzia. Due zone della vita a contrasto, perennemente conflittuali, ma assolutamente essenziali. Guido non trasforma la realtà della violenza del campo per far star meglio gli altri, per rendere agevole una permanenza fatta di sofferenze e di perdite. Gli altri prigionieri infatti non muovono un ciglio, non sorridono neanche un attimo alle battute sul gioco che Guido racconta al figlio. Essi restano tutti reali, e solo così sono credibili nel “gioco”. La trasformazione del reale da parte di Guido è volta unicamente alla salvaguardia della “libertà” dell’immaginario del bambino, libertà in cui il gioco è sempre una componente determinante per lo sviluppo emotivo-intellettuale. Vedere le facce di Benigni alle prese con il caldo dei forni, con le incudini pesanti, con il mondo chiuso e oppressivo del lager (e la sequenza dell’arrivo del treno è un altro meraviglioso furto, allo Spielberg di Schindler’s List, film impossibile da evitare-ignorare e cui Benigni in tal modo rende un ossequioso omaggio), è davvero sconcertante, ma non sorprendente. Perché chi lo ha visto in film come Chiedo asilo sa bene che in Benigni ci sono quelle componenti drammatiche che solo i comici più grandi sanno avere.
Alla fine quello che trionfa non è la maledizione del reale, ma il reale trasformato in gioco. Cioè tra il reale e il gioco vince il gioco (già, proprio come in John Ford – L’uomo che uccise Liberty Valance – tra la storia e la leggenda vinceva la leggenda). Ed è per questo che davvero il bambino “vince” il carroarmato, per ciò è naturale che riabbracci la madre che grida al cielo “abbiamo vinto”.
Non è la vittoria del razionale contro l’irrazionale della storia. È la vittoria della magia del comico, regno immaginario e magnifico dove il gioco, alla fine, vince sempre.

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Regia: Roberto Benigni
Interpreti: Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio Cantarini, Giustino Durano, Sergio Bustric, Marisa Paredes, Horst Buchholz, Ludia Alfonsi, Giuliana Lojodice
Durata: 120’
Origine: Italia, 1997
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.67 (6 voti)
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    5 commenti

    • Complienti per l'articolo, finalmente non cose scontate!

    • una recensione che sembra una poesia, complimenti ancora

    • Matilde Perriera

      <br />“La fibbia di Guido”, di Matilde Perriera, Liceo Classico “Ruggero Settimo”, Caltanissetta <br />Sofferenza e comicità. L’ossimoro concettuale, in 120 minuti, ha consentito l’energica osservazione omodiegetica di “un mondo in cui per i deportati non era previsto alcun altro termine che la morte” (P. Levi), in cui “ogni umanità era spenta, deserto radicale dello spirito” (L. Paini). “E’ una vicenda semplice, come in una favola c'è dolore e c’è felicità”. Le incisive parole fuori campo di Omero Antonutti avviano la fervida perorazione contro il genocidio perpetrato dal Nazifascismo ne LA VITA È BELLA. Il titolo, “venuto fuori all’improvviso, con un’emozione che ha fatto tremare tutte le costole” (Benigni), ha voluto sdrammatizzare il clima rovente degli anni '30, le leggi razziali del ’38, i lager, “paradigmi assoluti dell’inferno sulla Terra” (L. Paini). La rivisitazione, grandiosa per “queste commoventi storie d'amore, prima tra un uomo e una donna, poi per un figlio, in cui l'una è la c …

    • Eloisa Bellucci

      wow!Il messaggio è sensazionale!

    • glucutes@libero.it

      Eloisa, Fammi capire il tuo commento al mio articolo su La VITA è bella. Perchè lo hai giudicato "provocatorio o scorretto"