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La vita va così, di Riccardo Milani

Sardegna, pastori e progresso: Il cineasta si chiede se restare fermi non sia, in fondo, un modo per andare avanti. La confusione è tanta e il film rischia di arenarsi. #RoFF20. Grand Public

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Nel sud della Sardegna c’è una distinzione netta tra chi sceglie di restare — un po’ per testardaggine e un po’ per amor di radici familiari — e chi invece sceglie di fuggire. Poiché sfiancato e deluso dalla mancanza pressoché totale d’offerta lavorativa e, così, di stimoli, che quella terra meravigliosa e al tempo stesso desolata sembra quasi accantonare, proteggendo le generazioni del passato e dimenticandosi tragicamente delle voci e degli sguardi del presente, oltreché del futuro.

Se però i locali guardano alla desolazione dei luoghi e del sociale come a un immutabile difetto, “i foresti” — in questo caso i milanesi — la considerano invece un vero e proprio pregio. Ben venga, dunque, la desolazione, sembrano pensare: niente di meglio per una spietata e irrefrenabile opera di cementificazione e inattesa industrializzazione. Cosa accadrebbe, però, se qualcuno, senza mai alzare la voce, s’opponesse strenuamente al progresso e al cambiamento, incatenandosi spiritualmente (e non) alla terra, alla natura, ai valori che quest’ultima porta con sé e, ancora, alla memoria di un tradizionalismo mai così vivido e concreto?

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Le premesse di La vita va così, il sedicesimo lungometraggio da regista di Riccardo Milani, selezionato come film d’apertura alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, dialogano curiosamente con un tema di scottante attualità: gli effetti silenziosi, eppure più che evidenti, di una qualsivoglia manifestazione pacifica che, in aperto scontro con la violenza e l’intolleranza d’una proposta altra, resiste con forza, senza cedere d’un passo. È davvero inutile manifestare il proprio dissenso, mettendo da parte fin da subito qualsiasi pratica violenta? Oppure è proprio questa la chiave della vittoria e del percorso dell’eroe?

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La vita va così, di Riccardo Milani

Dunque la gentilezza e la morale incorruttibile — che appartiene ormai a pochi, anzi pochissimi uomini, le cui mani sono macchiate di terra e poco di più. Ne sa qualcosa il vecchio pastore Efisio Mulas (Ignazio Giuseppe Loi), minacciato instancabilmente da un’importante imprenditore di Milano, il quale vorrebbe spazzare via la natura di quell’area sarda ancora incontaminata, dando vita ad un resort di lusso senza precedenti. Efisio, disinteressato al fattore economico, si sottrae con forza, protetto esclusivamente dall’amore della figlia Francesca (Virginia Raffaele) e delle sue vacche: l’ultimo dei pastori, cui nessuno può strappare via il nido d’una vita. Nemmeno un’offerta milionaria. Peccato che il tema si esaurisca presto, affidando tutto ciò che resta al caos.

Sospeso tra commedia e dramma — Milani e Astori, se non replicano la linguistica di Un mondo a parte, poco se ne distanziano — La vita va così sembra rintracciare inizialmente una forma-cinema adeguata ai volti e ai corpi che la rappresentano, cioè quelli di Virginia Raffaele e Aldo Baglio (entrambi appartenenti al registro buffo e, più in generale, della comicità, funzionali lì e poco altrove), per poi confondersi, fino a deragliare.

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Sarà l’influenza — va detto, dichiarata — di un certo cinema nostrano degli anni ’70/’80, ormai fuori tempo massimo, sprovvisto di maschere, o peggio di credibilità. Oppure l’affondo drammatico su questioni di peso quali la solitudine, la disfunzionalità familiare, la povertà e la disoccupazione, che di tanto in tanto fanno capolino per poi svanire, alleggeriti ancora da un sorriso, pur sempre malinconico e dolente, che vorrebbe dire, eppure resta in sospeso. Al pari dei suoi interpreti e della scrittura, il cinema di Milani appare confuso. C’è più da ridere o più da piangere? Non è chiaro, e il disequilibrio di tono senz’altro non aiuta.

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
Sending
Il voto dei lettori
2.27 (11 voti)
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