L’accusa, di Yvan Attal

Complesso ed equilibrato, mai disposto a farsi trascinare dentro una generica visione dei fatti, un film di bruciante attualità capace di mettere davvero lo spettatore nelle condizioni del giurato

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All’origine c’è il romanzo di Karine Tuil che ha affascinato Attal per la sua complessità, che il regista sa trasferire nel suo film scandagliando i molteplici livelli dello stupro come atto violento e disturbante, frutto avvelenato di una cultura più complessiva che pretende che l’atto sessuale debba costituire il compiersi di un presunto diritto sull’altro in una malintesa estensione dell’erotismo che si trasforma in abuso.
Alexander è un figlio di buona famiglia. Suo padre famoso è un giornalista televisivo e sua madre intellettuale femminista. Lui studia negli Stati Uniti e davanti a sé ha una brillante carriera. Il suo ritorno a Parigi per trovare i suoi che vivono separati è segnato da una festa tra vecchi compagni di scuola. Alexander ci andrà con Mila la giovane figlia del compagno della madre. Alexander accetta una stupida scommessa e questa leggerezza lo porterà ad un rapporto sessuale con Mila che avrà inattese conseguenze. Mila denuncerà Alexander per stupro e il lungo processo che ne seguirà porterà ad una valutazione dei vari profili che sedimentano nella vicenda.
Affrontare di questi tempi un tema così scivoloso e spinoso come la violenza sessuale è atto sicuramente coraggioso per il quale è necessario attrezzarsi e Attal dimostra di avere la stoffa e la misura per servirci un film che, con l’indagine sui numerosi e imprevedibili risvolti psicologici che compie sui personaggi e l’analisi estrema sulla loro condizione culturale e sociale, ci offre un ampio spettro di temi sui quali riflettere. Al contempo conferma la scivolosità del problema più generale e l’impossibilità di irregimentare la valutazione del fatto dentro regole uniche – al di là della incondizionata condanna del gesto in sé, esecrabile e intollerabile – che possano valere una volta per tutte e una volta per sempre.
Le questioni che risultano coinvolte sono molteplici e mutevoli. È proprio su questa possibilità di “mutevole” percezione dei fatti, che deriva da una più complessiva conoscenza del dato culturale dei protagonisti, che il film di Attal sa raggiungere il suo massimo equilibrio e il suo sguardo si fa acuto e mai superficiale. Dal processo, dal suo progressivo articolarsi, come in una specie di proficua immersione sempre più profonda alla ricerca della verità, emerge la complessità delle circostanze, che diventa percepibile nella accumulazione di informazioni che abbiamo su Mila e su Alexander, un succedersi di dati dentro le quali provare a fare chiarezza per comprendere i limiti di una pretesa sessuale tra persone appartenenti a differenti condizioni sociali e culturali. In altre parole: in quali condizioni la figura maschile è in grado di percepire il fatto che quello che sta compiendo non è un gioco erotico condiviso, ma una violenza che si sta operando sulla partner? La violenza sessuale nasce da una percezione viziata del “diritto” alla sessualità che viene, invece, negata dalla donna che si sente aggredita. È quella che viene definita la “zona grigia” dentro la quale l’erotismo si confonde con la sopraffazione, con l’abuso sul corpo e sulla morale. Attal sa mettere in scena questa profonda complessità delle situazioni e scandaglia gli effetti dei comportamenti alla luce della cultura di Mila e Alexander. Il loro passato e la loro condizione sociale diventano i dati sensibili sui quali lavorare e rispetto ai quali comprendere il dolore di Mila e lo stupore di Alexander, che non riteneva di avere messo in opera una violenza, ma un gioco erotico, se si vuole estremo, ma innocuo e appagante. Si tratta di variabili che ridefiniscono successivamente la percezione della violenza e, quindi, la consapevolezza o meno di commetterla con la conseguenza di subirne la punizione secondo il diritto e le sue leggi. La complessità del racconto del film si manifesta proprio in questa articolazione di contrapposte percezioni delle cose e dei fatti. Resta esemplare, dentro una visione più intima del rapporto amoroso ed erotico, il differente livello di gradimento dell’erotismo che si esprimeva con frasi spinte e potenzialmente offensive nei confronti del partner femminile, quando queste erano pronunciate da Alexander nei confronti della sua precedente compagna, che ne condivideva l’assunto in un gioco erotico ambivalente, e quando invece queste stesse frasi saranno pronunciate nei confronti della più giovane Mila, figlia di un’educazione religiosa (ebraica nella specie) e quindi distante da quelle forme di erotismo accese e aggressive.
È in queste sfaccettature che non sono per nulla trascurabili, anzi risultano decisive non per la punizione e la condanna del gesto, ma per conoscere i limiti nei rapporti d’amore e per una consapevolezza delle azioni che il film di Attal si fa arditamente complesso, equilibrato, mai disposto a farsi trascinare dentro una generica visione dei fatti, anzi, viceversa, con la scientificità necessaria prova a guidarci alla ricerca di quella verità che non è mai un fatto semplice e che sempre pirandellianamente appare differente a seconda della parte dalla quale si guardi.
L’accusa lavora proprio dentro l’aula del tribunale per cercare questa verità mutevole e sfuggente. Evitando ogni spettacolarizzazione della punizione del colpevole, il film propone una interpretazione che è frutto di una riflessione autentica sui fatti e sulle sue variabili. È lo sguardo attento e puntiglioso del regista a rendere pregevole e coraggioso un film come L’accusa, che mette davvero lo spettatore nelle condizioni del giurato, che deve cercare di individuare una verità assoluta con l’equanimità di chi dovrà decidere. Ancora più coraggiosa diventa l’operazione di Attal nel momento di incombenza del #MeToo che ha rovesciato, nella sua furia travolgente, i termini del discorso. È in questa condizione di bruciante attualità che lo sguardo equilibrato e profondo di Attal diventa essenziale e necessario, in una quotidianità che ancora non sempre sembra matura per adattare questo invidiabile modello ad un reale che incombe e troppo spesso ci disturba nella sua imbarazzante superficialità.

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Titolo originale: Les choses humaines
Regia: Yvan Attal
Interpreti: Ben Attal, Suzanne Jouannet, Charlotte Gainsbourg, Mathieu Kassovitz, Pierre Arditi, Audrey Dana, Benjamin Lavernhe, Judith Chemla, Camille Razat, Laëtitia Eïdo
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 138′
Origine: Francia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
Sending
Il voto dei lettori
3.22 (23 voti)
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