Laceno d’Oro 44 – Giù dal vivo, di Nazareno Manuel Nicoletti

In Concorso alla 44a edizione del Laceno d’Oro (1-8 Dicembre), Giù dal vivo, scende nella vita reale della periferia di Napoli e ne riemerge con uno straniante ritratto/interpretazione

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Un dettaglio. Uno di quelli su cui nemmeno la macchina da presa indugia, ma che salta all’occhio dello spettatore fino a quel momento felicemente frastornato da una narrazione senza rete (narrativa) di sicurezza: un pesce rosso che galleggia in un’insalatiera piena d’acqua. Come se i protagonisti di Giù dal vivo, in Concorso alla 44esima edizione del Laceno d’Oro, volessero provare a ripetere le forme “normative” della società attraverso un processo di mimesi inevitabilmente ritorto dalla loro essenza freak. Le loro esistenze sono seguite dal regista Nazareno Manuel Nicoletti con le forme visuali del crudo documentario (e quindi long-take statici, lenti deformanti, primissimi piani su volti abbrutiti) ma raccontate su schermo assumono modi finzionali in grado di sconvolgere l’apparente naturalismo delle riprese.

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Siamo nella periferia di Napoli Est indagata nella potente scena iniziale dal God’es eye view di un drone che con un morbido volo che mostra un disordinato insieme di palazzoni rossi minacciati dai lotti abusivi di cemento armato in crescita ancor più caotica.

Punteggiata dal commento dell’attore Massimiliano Gallo e con la musica elettronica di Marco Messina e Sacha Ricci questa sensazione di rifiuto delle regole trasmigra dal lato ambientale a quello umano. A più riprese scopriamo infatti l’allenamento di un pugile col viso sempre protetto da una miriade di maschere di cartone finemente lavorate che s’allena esclusivamente dentro la sua stanza per dare massa priva di definizione ad un corpo istoriato dai tatuaggi. Il suo background non ci viene svelato, seguiamo piuttosto le sue asettiche e mute sessioni fino all’esplosione verbale di un monologo pieno di forza tonale ma privo di contenuto. Scopriamo così che ad essere letale non era lui nè tantomeno l’altro protagonista dell’opera, il giovane in cura in una struttura psichiatrica, ma il contesto nel quale essi sopravvivono senza senso e senza scopo alcuno. Uno straniamento al proprio luogo d’origine che trova splendida esemplificazione con la gita fuori porta dell’anziano a Milano che crede che il piccione non venga a beccare le sue mollichine perché non riconosce le mani lombarde del suo benefattore. Giù dal vivo scende nell’abisso delle vite di queste persone che sembrano trascinarsi ad un ritmo più lento di del nostro, pedinandole senza mai invadere il loro astruso spazio vitale. Nazareno Manuel Nicoletti usa gli stilemi del cinema di denuncia neorealista e al contempo ci sorprende con una regia quasi fiabesca, pronta a farsi sorprendere senza cupezza da sprazzi di solitaria e irrimediabile desolazione. Perché è solo dopo aver toccato il fondo che si può risalire.

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