LACENO D’ORO 45. Incontro con Antonio Capuano

Il regista campano, presidente di giuria dei lunghi e protagonista di una retrospettiva al Laceno d’oro, ci ha donato una lunga chiacchierata sul suo cinema controcorrente. Ecco com’è andata

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A me piace nuotare, e soprattutto controcorrente. Io quando nuoto controcorrente riesco ad andare lontanissimo perché provo una grande ebbrezza. Questo la dice lunga sul mio carattere“. È lo stesso Antonio Capuano a fornire l’immagine più limpida del suo cinema nella chiacchierata fatta con Sergio Sozzo, Aldo Spiniello e Leonardo Lardieri, avvenuta a suggello di questa 45a edizione del Laceno d’Oro Film Festival andato in streaming sulla piattaforma Mymovies dal 6 al 13 Dicembre. Il presidente di giuria dei lunghi ha anticipato la premiazione lasciandosi andare con generosità – anche verbale, si consiglia di vedere il video per farsi travolgere da un regista che è anche un uomo straordinario – in una discussione che ha abbracciato tanti temi fondamentali non solo del suo cinema ma dell’intera splendida stagione napoletana. Molto interessante a questo proposito il ricordo fornito da Capuano per quanto riguarda “l’invasione barbarica” dei 5 esponenti partenopei autori del film collettivo I vesuviani, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1997: “Sapete, era come in un western, noi eravamo i pellerossa e loro ci aspettavano al varco [… ] Quelli del cinema romano ci hanno impallinati. Martone se l’era presa, aveva letto tutti i giornali e io invece gli dicevo di star tranquillo. A me il film non era piaciuto come era venuto e da allora in poi i rapporti tra noi non sono stati più gli stessi“. Ed infatti, come nota lo stesso regista de Il buco in testa, forse la differenza fondamentale tra i registi di quella compagine e lui è che gli altri nel frattempo sono diventati nomenclatura, riuscendo in qualche modo ad inserirsi dentro il cinema romano “lontano da tutto ed odioso. Nanni (Moretti NdA) resta un amico ma è il Papa di questo cinema. Non c’è niente da fare, loro vogliono i soldi. Mi hanno prodotto Achille Tarallo perché c’era Biagio Izzo ma continuavano a dirmi ‘ma che è ‘sta cosa’?“. Uno sgomento produttivo che è segno di un isolamento artistico arrivato a cingere anche la sua ultima fatica Il buco in testa, salutata con successo dalla critica durante l’edizione online del festival di Torino ma non ammessa a Venezia “perché c’erano già quattro film italiani in concorso“.

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Queste difficoltà di visione per un cinema difficilmente instradabile sono le stesse riscontrate già dal suo Bagnoli jungle che nonostante fosse passato con buon successo proprio al Lido nel 2015 venne rifiutato dai maggiori distributori italiani. La capacità auto-analitica del regista è di una sincerità disarmante dato che è egli stesso a riconoscere che la sua ritrosia verso il cinema della Capitale e della città eterna ha buon gioco nell’allontanargli la necessaria costruzione di rapporti: “Mi sento che parlo da solo, non partecipo alle feste in terrazza, a Roma scappo sempre, anche quando il mio amico Paolo Sorrentino mi chiede di restare, io vado sempre via, mi tengo sempre fuori e questa è una cosa che indispettisce. Non mi piacciono le feste, mi annoio presto. Ma non lo faccio per vanità, è che sono proprio fatto così“. Una persona incasellabile quindi per un cinema personale e controcorrente, una sorta di terza via che rifugge sia dagli schemi dei film socialmente impegnati che dall’estetica televisiva evidenziabile nella proliferazione degli epigoni alla Gomorra. Qui la critica di Capuano come al solito è schietta e senza giri di parole: “Le mafie sono faccende che ci riguardano ancora tutti. Bisogna raccontare, raccontare, raccontarli ma senza il modo manierato, in modo vero. Io ho fatto Luna Rossa perché volevo che la gente schifasse la camorra, invece hanno schifato il film. I camorristi in realtà fanno una vita di merda, nonostante le macchine, le scene che vogliono far trasparire. Non come ha fatto il buon Roberto (Saviano NdA) a lanciare suo malgrado quella moda, questa estetica del camorrista e perfino l’etica. Se ti atteggi a camorrista sei molto temuto e rispettato purtroppo. Questo è un costume arretrato“. Un costume sociale che spesso nasce dall’insofferenza dei giovani verso i difficili ambienti di nascita e che incanalano le loro energie contro l’ordine costituito che quasi sempre coincide con lo Stato. Uno Stato visto come ancora e sempre come nemico quindi, tara mai risolta del Sud e di cui Capuano rintraccia con un volo pindarico notevolissimo un possibile parallelo in una delle opere più celebri di un abitante della Magna Grecia, e cioè Le baccanti, di Euripide: “è una cosa nostra di essere fuori dalla norma, anche al di là del mito“. Il mito quindi come possibile fonte di spiegazione per il carattere di un popolo, associato al simbolo principe degli abitanti di Napoli: il vulcano.

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La stratificazione del cinema di Antonio Capuano si origina proprio dall’immagine pregnante del vulcano e dei suoi effetti. Ed in effetti nell’arco di tutta la discussione emerge prepotente la necessità fisiologica della contaminazione/sedimentazione con tutte le forme possibili dell’immaginario, che sia dalla street-art di Bagnoli Jungle (“Faccio liti incredibili coi miei amici pittori napoletani, ad esempio loro erano contro la street art, per loro era solo imbrattare“) all’esplosione dei formati propria de Il buco in testa. Ed ancora una volta la sintesi più felice di questo concetto la fornisce Antonio Capuano che facendo leva sulla ricchissima gestualità sua e del suo popolo spiega il mistero (di Pulcinella, ovviamente!) della sua arte: “A me mi piace ammischià. […] La forma filmica è solo esteriore, il film dovrebbe avere una forma volumetrica, dovrebbe includere il racconto di tutto, dovrebbe essere intersecato di avvenimenti visivi, acustici. è questo il bello del cinema“. Un cinema purtroppo visto da pochi ma buoni, come si suol dire perché solo “chi ha gli occhi giusti riesce a capire la vitalità di un racconto, di un oggetto filmico“. Che nel caso del cinema di Antonio Capuano è ancora fuori dalla rotte produttive. I suoi film precedenti, per usare un’ultima espressione mitica che richiama le fatiche di Sisifo “sono come palle al piede che mi porto dietro e che devo trascinarmi dietro ogni volta per risalire e fare ancora un altro film“. Ecco, il destino difficile ma titanico di un regista che continua a proclamare che dell’immagine gli piace tutto, anche a costo di continuare a bruciare tra le fiamme del sommerso.

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