Laceno d’oro 46. Incontro con Elia Suleiman

Nell’edizione conclusasi la scorsa settimana, Elia Suleiman si è raccontato in una masterclass con il pubblico avellinese. Ecco il nostro racconto della chiacchierata

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L’incontro al Cinema Partenio di Avellino con l’autore di It Must Be Heaven, Premio alla Carriera del Laceno d’oro 2021, inizia sulla scorta di Roscoe Mitchell e della sua annotazione di dover avere sempre “un motivo importante per rompere il silenzio”. “Ci sono tanti linguaggi, e il silenzio è uno di questi”, ribatte Elia Suleiman. Ma non si tratta di un silenzio assoluto in quanto tutti i momenti dominati dalla mancanza di dialoghi nei film del cineasta palestinese invitano gli spettatori a riflettere e interpretare liberamente quel preciso istante. Quindi si arriva a costruire un dialogo tra il film e gli spettatori, tutt’altro che fine a se stesso. Proprio partendo dalla riflessione sul silenzio, Suleiman valuta negativamente quel cinema odierno che abusa del linguaggio verbale in virtù del fatto che il silenzio incute timore e invita a porsi delle domande che possono suscitare un sentimento di inquietudine in chi guarda. Il silenzio, secondo queste narrazioni, va neutralizzato e occultato dalle parole perché ci dice che siamo individui potenzialmente fragili.

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Un silenzio che allude a una certa essenzialità che comporta il “non voler raccontare tutto”, lavorando su ellissi narrative che annullano ogni forma di linearità narrativa compiuta. Suleiman racconta il suo particolare processo creativo che si fonda su esperienze reali e quotidiane. L’autore di The time that remains sostiene di “essere colpito da dettagli marginali, come i gesti del corpo e le espressioni del volto in cui trovo humour”. Tutto questo materiale non viene fotografato, bensì trascritto in un taccuino e dei post-it per essere poi successivamente selezionato. Per Suleiman questo processo assomiglia alla realizzazione di un quadro, in cui una serie di momenti che rimangono in mente vengono selezionati per coadiuvare esclusivamente tutte le situazioni componibili tra loro, “trovando le interconnessioni”. 

In tal senso, l’esperienza a Cuba per la realizzazione del film collettivo 7 days in Havana è stato un momento decisivo: inizialmente partita con problemi soprattutto legati alla lingua sconosciuta, con il tempo è diventata qualcosa che “mi ha permesso di capire che il mio cinema stava cambiando”. Per il regista questo scarto è evidente nel modo in cui i personaggi da lui interpretati passano da essere monoliti rigidi dalle espressione keatoniane nei primi film come Intervento Divino, a personaggi più dinamici che risultano davvero ancorati al mondo che li circonda, nelle opere più receti. Se prima erano i suoi personaggi a destabilizzare le situazioni, ora i caratteri che interpreta sono esso stessi destabilizzati dal contesto che li circonda.

Questo si riflette sulla maniera in cui Suleiman ha affrontato nel suo cinema il conflitto israelo-palestinese. L’autore sostiene che le ostilità tra i due popoli sono afflitte da un “sensazionalismo nascosto” nei media, come certi film visionati da giovane che lui descrive come “conciliatori ed ecumenici” sull’argomento. Proprio a proposito della sua giovinezza, ricorda come non sia mai stato un cinefilo e nella sua vita il cinema è una delle tante passioni, ma non è mai stata l’unica.

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