Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica

Dal romanzo omonimo di Luigi Bartolini, il manifesto del Neorealismo che tende a rispecchiare “l’integrale” della realtà, Tra i vertici della collaborazione tra il regista e Zavattini.

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«Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo!» si sente dire da un preside il professore cinefilo di C’eravamo tanto amati, prima di sbagliare, per eccesso di conoscenza, l’ultima domanda di “Lascia o raddoppia” su Ladri di biciclette.

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Appena uscita, l’opera chiave e secondo Oscar del sodalizio De Sica Zavattini – storia di un attacchino derubato della bici che gli serve per lavorare e del suo viaggio a piedi, insieme al figlioletto, nella Roma post bellica, tentando di ritrovarla – non ha avuto successo in patria: di fronte al pubblico, pagava, come già Sciuscià, la più generale caduta di popolarità del Neorealismo di quegli anni; di fronte alla critica, si riproponevano i limiti ideologici dell’una e dell’altra parte. Da destra, l’isolamento sociale dell’operaio era una critica alle istituzioni (polizia in primis); da sinistra, un argomento contro la solidarietà di classe (il volto manzoniano della folla pronta al linciaggio dell’attacchino; i compagni del sindacato che lo zittiscono). I cattolici, il cui Centro Cinematografico aveva boicottato qualche anno prima la circolazione di La porta del cielo che pure aveva commissionato (e che De Sica aveva accettato solo per poter rifiutare, in piena occupazione tedesca, l’invito a lavorare per Goebbels a Venezia), non ne apprezzavano l’ironia anticlericale: il gruppo di seminaristi (tra cui Sergio Leone) che passa indifferente accanto a padre e figlio parlando il tedesco degli ex occupanti; il moralismo  ipocrita che accomuna una casa chiusa e una mensa cristiana per poveri, ugualmente determinate a scacciare l’attacchino (e il suo problema) per dichiarata difesa della propria immagine perbene. Il miracolo sfiorato a casa della santona, di fronte alla quale l’attacchino riavvista il ladro subito dopo il consulto.

Ma se alla prima romana al Metropolitan, la gente chiedeva la restituzione del biglietto, a Parigi, alla Salle Peyel, Ladri di biciclette ebbe una platea di intellettuali e De Sica l’abbraccio di René Clair. E benché oltralpe fosse forte, all’inizio, nei “Cahiers”, il (pre)giudizio di ambiguità su un regista “impegnato” che era stato (e sarà) attore “leggero” in contrasto col manicheismo della “politica degli autori”, sarà il cofondatore degli stessi Cahiers, André Bazin, a dare a Ladri di biciclette consacrazione definitiva, fugando proprio attraverso di esso ogni dubbio sul presunto capolinea della stagione neorealista: «Passata l’esplosione degli anni ’46 e ’47 […] che ne resta del neorealismo italiano, quando deve per forza di cose tornare a soggetti tradizionali? […] Ma c’è Ladri di biciclette […] [con cui] De Sica ce l’ha fatta a uscire dall’impasse, a giustificare di nuovo tutta l’estetica del Neorealismo». E se si trattava, per l’ispiratore della Nouvelle Vague, del «solo film comunista valido degli ultimi dieci anni» è perché la sua vera portata rivoluzionaria non era ideologica ma filmica: il suo essere «uno dei primi esempi di cinema puro» senza più attori, senza più storia, senza più messa in scena, «cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema». Se Ladri di biciclette è diventato, più di Sciuscià e Umberto D., manifesto del Neorealismo è perché, sul filo del ragionamento di Bazin, di quella stagione per niente univoca del cinema post bellico rintraccia lo spirito comune dalla parte non di chi lo fa, ma dell’anima collettiva di chi lo guarda, estremizzando così l’utopia verista di questo ritorno ai Lumière: quella di un cinema che tende a rispecchiare “l’integrale” della realtà, senza alcun residuo di intermediazione cinematografica, e quindi senza cinema.

Non c’è, per De Sica, niente di più ricercato di questa rinuncia del cinema a se stesso in nome della semplice vita documentata, niente di più costruito di questa operazione di pura “verità”. Da un lato, la critica alla macchina hollywoodiana dei sogni che si fa incidente scatenante (ma per niente incidentale) della storia: la locandina di Rita Hayworth che l’attacchino affigge sui muri e che rappresenta, per lui, sia l’illusione di un lavoro municipale e dell’uscita dalla disoccupazione, sia la causa di distrazione che gli farà perdere la bici e lo stesso lavoro; dall’altro, l’ostinazione quasi ossimorica di “blindare” la libertà di questa presa diretta sulla vita, di una realtà da pedinare plein air, senza interpreti di professione, e di un pubblico che può finalmente identificarsi in essa, da protagonista, riflettendosi allo specchio del grande schermo: De Sica litiga a lungo con Zavattini per la scelta del suo bambino della strada (Bruno/Enzo Staiola); il padre operaio (Antonio Ricci/Lamberto Maggiorani) lo prende dalla Breda, mentre rifiuta per lo stesso ruolo Cary Grant che gli avrebbe garantito il finanziamento americano e la fine delle difficoltà economiche; la madre (Maria Ricci/Lianella Carell) è una giornalista di Radio Rai; il barbone – che (ancora) non vola come i barboni di Miracolo a Milano e vuole solo essere lasciato in pace – è il compositore Carlo Jachino. E la folla che esce dal Flaminio – e che va all’attacco di Antonio nel finale, quando questi, perduta ogni speranza di ritrovare la bici, ne ruba una a sua volta – ha appena visto “davvero” una partita di calcio.

Ma se il furto di una bici è nel ’48 per Zavattini «un fatto enorme» – e non l’espediente di un «romanzo umoristico» come nel sottotitolo dell’omonimo romanzo di Luigi Bartolini da cui il film è tratto – è per una serie di specifiche nel solco delle quali si situa tutta la distanza (e la polemica) tra sceneggiatore e scrittore: l’estrazione sociale del protagonista, borghese nel romanzo e popolare nel film, dove la bici non è più lo strumento di evasione di un pittore snob ma una questione di sopravvivenza per le file di disoccupati che vediamo all’inizio della pellicola; il co-protagonismo dell’infanzia, assente nel libro, e che rappresenta per De Sica insieme un topos (da I bambini ci guardano a Miracolo a Milano) e un deus ex machina. È il bambino che salva per due volte l’uomo dal linciaggio e che compie il gesto a cui è consegnata la catarsi di ogni tragedia classica: quel prendere per mano il padre per consolarlo in cui il ribaltamento dei ruoli scopre, nella poesia degli sguardi e dei dettagli di umanità, il lato “vero” della vita.

 

Premio Oscar come miglior film straniero nel 1950

 

Golden Globe miglior film straniero

 

David di Donatello nel 1949 come:

-miglior film

-miglior regia (Vittorio De Sica)

-miglior soggetto (Cesare Zavattini)

-miglior sceneggiatura (Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Suso Cecchi D’Amico, Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gerardo Guerrieri)

-miglior fotografia (Carlo Montuori)

-miglior colonna sonora (Alessandro Cicognini)

 

 

Regia: Vittorio De Sica
Interpreti: Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Lianella Carell, Elena Altieri, Gino Saltamerenda
Durata: 93′
Origine: Italia, 1948
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
Sending
Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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