Lagunaria, di Giovanni Pellegrini

Un docufantasy storico dai toni epici che trova delle soluzioni visive seducenti, mentre alla lunga fa più fatica a tenere il ritmo di un discorso mitico e divulgativo.

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Quello di Lagunaria è un racconto pieno di nostalgia. Una voce narrante di inflessione mitica guida il ricordo di comunità invisibili dentro luoghi misteriosi nascosti da un reticolo di canali acquatici, sorvola le rovine di una civiltà che a causa di un appiattimento commerciale sembra scomparsa, venduta a favore del profitto, vittima del moto ondoso provocato dalle grandi navi da crociera. Mostra le carcasse di pietra esposte alle mire del dio del mare, invadente e capriccioso amante dotato di un abbraccio mortale. Attraverso una ricostruzione storica di Venezia emergono le debolezze strutturali di un patrimonio edilizio reso fragile dagli allagamenti ed una datazione degli interventi in atto per scongiurare la scomparsa, ed evitare la totale distruzione. Ma quello che preme al regista sottolineare è soprattutto la perdita d’identità collettiva di un luogo con una vita dipendente dagli abitanti temporanei legati al movimento turistico ed interi isolati occupati da un numero interminabile di bed and breakfast.

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Una città che con la pandemia si è trovata svuotata dal solito flusso incessante di visitatori ed ha potuto guardare le case abbandonate, i quartieri sgombri e nei meandri silenziosi si è trovata a navigare in un posto sconosciuto, irriconoscibile senza il solito maquillage remissivo a favore di ospite, spogliata dai ninnoli rumorosi del carnevale permanente. E si chiede mormorando con preoccupazione dove siano finiti l’orgoglio dell’appartenenza, l’atteggiamento imponente, il volto fiero. Guarda al passato con uno sguardo epico, e tra gli indizi del presente scorge gli insegnamenti del tempo, le radici bagnate eppure solide, quel filo che tramanda la memoria di generazione in generazione ad esempio insegnando ai ragazzi a vogare. Ha la fiducia e la necessità di interpretare quel collegamento come l’argine indistinguibile che fa gridare all’assenza. Il documentario è di tipo narrativo/osservazionale e naviga in mezzo alla popolazione rimasta di presidio, il nucleo di una rinascita possibile, ammesso si riescano a dileguare i fantasmi di un’isola inghiottita dalla nebbia del disinteresse. Un malinconico grido d’aiuto unito alla ricerca di un sintomo autoctono, sussurrato dai reperti, condiviso insieme al disagio dell’acqua alta, febbrile passione di Poseidone. E che potrebbe aver trovato ispirazione nel mito fondativo di Metamauco, un’isola fonte di leggende di sapore atlantideo, che secondo gli studiosi si trovava nel posto più cinematografico della laguna, il Lido, e si è dissolta nel XII secolo. Trova delle soluzioni visive seducenti, si nutre di suoni e di riflessi, mentre alla lunga fa più fatica a tenere il ritmo di un discorso mitico e divulgativo ed evitare la trappola della ripetizione, ma la somma può considerarsi positiva.

 

Regia: Giovanni Pellegrini
Distribuzione: Antidote
Durata: 85′
Origine: Italia, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
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Il voto dei lettori
3.17 (6 voti)
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