Laika, di Ascanio Celestini
Fiaba sociale che mette al centro della scena gli ultimi della Terra: da un facchino ne*ro a una puttana sono i bastardi come la cagnetta russa lanciata in orbita nel 1957 ad essere più vicini a Dio
Sgonfiato. Guardi Ascanio Celestini riportare al Teatro Vittoria di Roma questo Laika, suo vecchio spettacolo datato 2015, e sembra che l’attore e regista romano faccia quasi fatica a stare sulla scena, come se il suo monologare non avesse la pressione giusta atta a supportare la serata e soprattutto la notte che sancirà l’enfia vittoria di Donald Trump alle elezioni statunitensi. La verve appare residuale, alla maniera di quei vecchi guitti del vaudeville che continuano stancamente a ruzzolare sul palco non capendo che il loro tempo è esaurito, fagocitato da un sistema culturale/industriale (e forse il secondo termine andrebbe preposto ma noi continuiamo ad essere romantici) che si mangia continuamente le viscere cercando di rinnovarsi per non soccombere ai serissimi giochi con cui il capitale spalanca a ventaglio le proprie tenaglie. Dopo qualche battuta di repertorio, Celestini finalmente enuclea – la riprenderà in più occasioni nel corso dell’ora e mezza dello spettacolo – la metafora della volta celeste che sta cadendo sempre più velocemente e, al momento, è sorretta solo dai facchini che con un mano fanno entrare ed uscire i pacchi della cooperativa di logistica per cui lavorano e con l’altra tengono il cielo affinché non collassi. Una prima intuizione che raddrizza la stanchezza avvertita e sembra rivitalizzare anche il perfomer romano, adesso sciolto nei suoi tartagliamenti e nei cambi di tono che caratterizzano la pletora di personaggi di Laika. Le prime invettive antireligiose che riguardano lo Stephen Hawking punito da Dio per aver affinato la teoria del Big Bang o lo Steve Jobs tormentato col cancro, sempre dal Signore dei cristiani, proprio per aver fornito al cosmologo studioso dei buchi neri il software per fargli enunciare le sue pericolose arringhe scientifiche, sembrano infatti calchi comici di tanto stand-up anglosassone. Con lo spostamento della narrazione sull’umanità vista dall’alto dei “35 metri quadrati calpestabili” dal bevitore di sambuca e dal suo amico Pietro (Gianluca Casadei alla fisarmonica, muto ma doppiato con delle registrazioni effettuate dalla morbida voce di Alba Rohrwacher), ecco che lo spettacolo, pur nella fittissima frammentazione a cui Celestini sottopone il racconto, trova il suo cuore. Un cuore che gronda empatia per la sofferenza degli invisibili, come nello spezzone che dispiega la tragica storia della donna “impicciata” che, sarà pure una “rompicoglioni” che lascia missive moralizzanti ai condomini, ma che, basta parlarci, sono soltanto i segni delle ferite mentali causate dalla morte del figlio in un incidente d’auto.
Laika diventa allora un altro tassello delle fiabe sociali del cantastorie di Casal Morena che trova la quadra tra rabbiosi sermoni anticlericali – e pensare che appena qualche anno dopo con Rumba – L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato sceglieva un approccio molto più posato – ed accorate confessioni di ragazze di vita. C’è, per esempio, la prostituta che, colpita dalla giornata gratis con cui i musei permettono anche agli indigenti di ammirare le proprie opere d’arte, omaggia di un simile regalo i suoi clienti ma che si differenzia dall’analoga iniziativa statale perché non stabilisce un giorno al mese preciso per non fare lucrare i clienti. La poesia bastarda che tinge sempre più lo spettacolo è espressamente richiamata dalla rivelazione fatta dal cantastorie beone, verso la fine, che l’eponima cagnetta russa lanciata nello spazio con lo Sputnik 2 nel 1957 fu scelta proprio per la sua mancanza di pedigree. In fondo, anche gli animali sacrificabili sono, come gli umani, scelti tra le sacche sociali meno tutelate. Celestini, nella seconda parte della pièce, aveva già accennato ai loro piccoli atti di resistenza come il giro di liquore offerto al simpatico abusante dagli avventori del bar e l’amicizia nata proprio tra la puttana di borgata e la donna impicciata. Ma questo stillicidio di dolore di piccolo ma persistente cabotaggio trova il suo sfogo definitivo nel pestaggio del “barbone negro” – il woke è invenzione del centro, le periferie chiamano le cose col nome che si trovano più a portata di mano -, ex operaio del magazzino che dopo un incidente sul lavoro è finito a vivere per strada e viene picchiato dalla polizia durante una manifestazione di protesta. Proprio durante questo sopruso quotidiano avviene il miracolo laico che Celestini, con un insospettabile ottimismo della speranza, sottolinea con vibrante partecipazione: “Ha visto signora? Noi abbiamo assistito a un prodigio. Tre persone nel cuore della notte sono scese in strada per salvare la vita a un barbone“. Quella sera non è solo Laika ad essere vicino stata così vicina a Dio