L’altra metà dell’amore, di Lea Pool

Il film di Léa Pool possiede una sua coerente durezza nel mettere in scena quel progressivo desiderio di morte, affidandosi anche alla forte presenza istintiva di una efficace Piper Perabo e alle metamorfosi di uno spazio che si trasforma quasi in una foresta in cui ambientare un film d’avventura

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Si alimenta di una strana oscurità “L’altra metà dell’amore”, opera tratta dal romanzo “The Wives of Bath” di Susan Swan. Innanzitutto il film della regista canadese Léa Pool (attiva sin dall’inizio degli anni Ottanta con opere come “Strass Café” e “La femme de l’hotel”) è altro da ciò che a prima vista può apparire, cioè la storia di una travagliata passione omosessuale tra due studentesse. In effetti il titolo originale, “Lost and Delirious” consente di entrare meglio all’interno di una storia di follia e desiderio dove sia il college sia i personaggi (studenti e insegnanti) appaiono già molto lontani da quelle forme riconoscibili di “teenager-movie” degli anni Ottanta e Novanta. C’è un’attraente astrazione temporale che accentua quella dimensione di isolamento, abitati da personaggi dalla configurazione quasi “fantasmatica” (la preside dell’istituto, il giardiniere), che sembrano vivere da secoli nel luogo, consumati dal tempo e da un dolore sentimentale che ha lasciato in loro cicatrici insanabili. Dentro “L’altra metà dell’amore” c’è inizialmente un occhio esterno e oggettivo, quello di Mary Bradford (interpretata da Misha Barton, già apparsa in “Notting Hill” e in “The Sixth Sense”) che, dopo la morte della madre e la mancata intesa con la nuova compagna del padre, è costretta a vivere questa nuova esperienza. Mary si smarrisce progressivamente dentro questo strano vortice di “perdita” e “delirio”, assistendo prima alla passione poi alla disperazione di Pauline in quanto la sua compagna Victoria non possiede il necessario coraggio per vivere con lei una storia d’amore. Quella di Mary diventa poi la storia di una trasformazione e di una mutazione nella propria identità (il suo soprannome cambia infatti da Mouse a Mary B.), e il suo sguardo entra dentro gli eventi, portandosi addosso quella partecipazione e quel senso di coinvolgimento quasi epidermico. “L’altra metà dell’amore” possiede una sua coerente durezza nel mettere in scena quel progressivo desiderio di morte, affidandosi anche alla forte presenza istintiva di una efficace Piper Perabo (già vista in “Le ragazze del Coyote Ugly”), e alle metamorfosi di uno spazio che si trasforma quasi in una foresta in cui ambientare un film d’avventura, con il personaggio di Pauline provvisorio alieno che assume quell’estraneità dei movimenti come il Brewster McCloud di “Anche gli uccelli uccidono” di Altman. Malgrado qualche ridondanza in una messinscena che in certi momenti resta troppo vincolata a una scrittura eccessivamente ingombrante, che accentua riferimenti letterari e teatrali (i versi shakesperiani di Lady Macbeth e Cleopatra), “L’altra metà dell’amore” sembra aspirare da una parte a quell’opprimente tensione di “Quelle due” di Wyler, ma dall’altra non ha punti di riferimento. Forse è proprio qui una delle ragioni maggiori della sua imprevista seduzione.

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Titolo originale: Lost and Delirous

 

Regia: Léa Pool
Sceneggiatura: Judith Thompson dal romanzo di Susan Swan
Fotografia: Pierre Gill
Montaggio: Gaétan Huot
Musica: Yves Chamberland
Scenografia: Serge Bureau
Costumi: Aline Gilmore
Interpreti: Piper Perabo (Pauline), Jessica Paré (Victoria), Mischa Barton (Mary), Jackie Burrough (Faye Vaughn), Mimi Kuzyk (Eleanor Bannet), Graham Greene (Joe Menzies), Emily VanCamp (Allison), Amy Stewart (Cordelia)
Produzione: Greg Dummett, Lorraine Richard, Louis-Philippe Rochon, Richard Rochon per Cité-Amerique/Dummett Films
Distribuzione: Nexo
Durata: 103’
Origine: Canada, 2001

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