Lassù, di Bartolomeo Pampaloni

Premio della Giuria al Trento Film Festival e in questi giorni fuori concorso al Sicilia Queer, il nuovo doc dell’autore di Roma Termini insegue la luce per concentrare l’energia dello sguardo

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Negli anni, ogni tanto, spuntavano tracce di Bartolomeo Pampaloni, la partecipazione a qualche follia di Fulvio Risuleo, frammenti in un film partecipato, episodi di serie di doc per la tv (ricordiamo ancora Chris & Mil, molto bello, per BOATS di La Nove). Restavamo però sempre alla ricerca del nuovo exploit del regista di Roma Termini, che per lungo tempo ci sembrò una delle vette di questa generazione di “cinema del reale”. Ora Pampaloni torna con Lassù, premio della giuria al Trento Film Festival di un mesetto fa, e in questi giorni presentato fuori concorso al Sicilia Queer.
Sin da subito, il cineasta mette in chiaro che anche questa storia ha a che vedere con quello che scorgiamo agli angoli della visione, ai margini del quadro: un fisheye “spinto” segue Isravele, il protagonista del documentario, nella sua quotidiana raccolta di sassolini e oggetti vari per strada, da annettere poi all’infinito mosaico con cui l’uomo va ricoprendo da anni un osservatorio abbandonato su di un monte a Palermo. Il dubbio che le immagini erranti di Pampaloni sembrano costantemente porci è: dove devo concentrare la mia attenzione?
La sequenza d’apertura pone in contrapposizione evidente l’oscurità e la luce, i vicoli al buio e sprazzi d’illuminazione sui volti della gente (come gli schermi degli smartphone…). Più in là, una comitiva di curiosi salita a visitare l’eremo di Isravele rimarrà interamente fuoricampo, voci intruse mai inquadrate che l’uomo non tarda a scacciare. Concentrare l’energia è d’altronde il fulcro primario dell’attività dell’artista, che va erigendo questo tempio al divino come un atto di infinita preghiera per l’umanità, quella stessa umanità che intravediamo di notte alle sue spalle nella città lontana, alle pendici della montagna solitaria, ancora una volta come agglomerati indistinti di luce a distanza siderale.

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Come in Habitat (Piavoli) di Ferri e Casazza le parole con cui il protagonista si racconta sembrano scaturire dalle mura stesse dentro cui impariamo a conoscerlo, dalle stanze tra cui si muove e si insinua la mdp: e così la filosofia di Isravele la intuiamo tra le conversazioni che intrattiene, quando è in buona, con chi sale fino all’osservatorio, per dare un’occhiata alla sua opera d’arte perennemente in progress. La profezia più potente, però, Pampaloni la affida all’immagine di un sole abbacinante che si staglia sulla superficie del mare, mentre le parole dell’artista evocano figure ancestrali di nascita e creazione del mondo e della vita (ovviamente, nella Luce).

Lassù è un’operazione che è costata sei anni di lavoro, e Pampaloni ne ha passato più di uno a vivere insieme a Isravele, al secolo Nino, muratore palermitano che oltre vent’anni fa ha mollato famiglia e lavoro per ritirarsi in solitudine a elevare (leggi al contrario il nome con cui ha deciso di ribattezzarsi…) questa preghiera incompiuta in forma di mosaico di “materiali di recupero”. Il film tratta alla stessa maniera delle tessere sulle pareti dell’osservatorio abbandonato le fugaci sequenze d’archivio televisivo che appaiono come flash sulla storia dell’uomo, e anche la straordinaria partitura di Zeno Gabaglio per la colonna sonora sembra sedimentata sulle pietre di questa vicenda infradimensionale.
Come in Roma Termini, Pampaloni è particolarmente attento a settare confini, onestà e rigore del suo rapporto con i suoi protagonisti: e quando Isravele dichiara che il tempo della presenza della videocamera in quei luoghi è definitivamente concluso, il film non può che chiudersi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
2.5 (4 voti)
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