"Last Food", di Daniele Cini

L'esordio al lungometraggio per Daniele Cini si risolve spesso in una difformità incontrollata tra l'occhio e la penna. Già dai corti, la sfera ispiratrice orbita intorno ai cinque sensi. Con i metri di pellicola aggiunti, la favola grottesca perde però a tratti il senso tra i sensi: il collante tra la parte dialogica e quella ipertestuale.

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Lo schianto aereo è una soggettiva barcollante sulle lande nevose e rupestri di un luogo misticamente incontaminato. I due superstiti, un cuoco raffinato giapponese e un commerciante di prodotti alimentari "globalizzati", intraprendono il cammino alla ricerca d'aiuto. Il cibo è fonte di conflitti culturali e fisiologici. Lo spiluzzicare o alimentazione vagabonda (succhiare i sassi, riscaldare erbe selvatiche) è il comportamento appropriato in situazioni di drammatica carestia, in cui l'unica soluzione consiste nel vivere di bocconi raccolti qui e là in un'instancabile ricerca. Primitivo e originario rimedio all'opulenza dei nostri tempi. Ma il viaggio pare interminabile, i vuoti interni (di stomaco) ed esterni (di spazio), che avviluppano, sono ormai incolmabili. Anche i primi piani, ripetuti per tagliar fuori selvagge rivalità e sterminate asperità, cedono inesorabilmente il passo ai "totali" universalmente angoscianti. La disorganizzazione schizofrenica prende di spalle: allucinazioni "mangerecce" s'impossessano del comportamento, della necessità e degli impulsi. Il proprio corpo è posseduto in assenza di un centro di gravità. Forze esterne controllano le azioni e i pensieri più atroci. Metà film (anche meno) è andato, digerito, metabolizzato. Grumand (Gigio Alberti), da sempre incapace di riconoscere la fame, tratto in salvo, scopre anche la mancata consapevolezza di vivere la propria vita. Si comincia un altro viaggio dove la "metratura" ambientale è limitata all'immagine corporea, all'incontro terapeutico. Tutto è focalizzato al raggiungimento di una più realistica percezione del sé, fisico e no, scacciando "voci di dentro" paralizzanti. La fallace convinzione di non avere un'identità riconoscibile, di non possedere un corpo pienamente definito, è simbolicamente pregnante per un cinema effettivamente farraginoso e claudicante proprio nell'espressione delle sue stesse forme concettuali. L'esordio al lungometraggio per Daniele Cini si risolve spesso in una difformità incontrollata tra l'occhio e la penna.  Già dai corti, la sfera ispiratrice orbita intorno ai cinque sensi. Con i metri di pellicola aggiunti, la favola grottesca perde però a tratti il senso tra i sensi: il collante tra la parte dialogica e quella ipertestuale. Debole è la trasposizione dei segni in un altro, che accompagni una rinnovata articolazione della posizione enunciativa e denotativa. Così come, ci pare, eccessivamente caricaturale la trasformazione allusiva del testo, preda di forze centrifughe che ne disgregano e frammentano l'unità narrativa. L'eccentricità eterogenea fatica a ritrovarsi, pur denotando, di base, potenzialità di racconto inespresse. 

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Regia: Daniele Cini


Sceneggiatura: Daniele Cini, Sergio Bazzini


Fotografia: Stefano Pancaldi


Montaggio: Paola Freddi, Stefano Tria


Musiche: Alessandro Molinari


Scenografia: Fabrizio Moschini


Costumi: Silvia Polidori


Interpreti: Gigio Alberti (Grumand), Hal Yamanouchi (Takano), Fanny La Monica (Arianna), Silvia Bosi (Berta), Marianne Cotton (Dott.ssa Salomelli), Bruno Gambarotta (Dott. Panzeri), Ludovica Andò (Elisa), Giuseppe Gandini (Natalino), Franco Pistoni (vicino muto)


Produzione: Nauta Film


Distribuzione: Stazione Marittima, Gruppo Pasquino Distribuzione


Durata: 91'


Origine: Italia, 2003

 

                 


 


 


 


 


 


 


 


       


 


 


 

 

 

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