Lazarus, di David Bowie e Enda Walsh
L’opera musical-teatrale di David Bowie porta sul palco con Manuel Agnelli i demoni del protagonista. E conferma, lynchianamente, che “possiamo batterli, solo per un giorno”

“La mia prigione/vede più della tua libertà”. In uno dei testi più importanti della critica letteraria che è “Attraverso Pasolini” del 1993, Franco Fortini chiudeva in questo modo uno dei suoi apicali epigramma rivolgendosi all’amico/rivale che lo aveva accusato di essersi fatto ingabbiare troppo supinamente nel carcere della lingua borghese. Fortini usava allora di proposito la sineciosi, ovvero la forma della contraddizione con cui egli leggeva gran parte dell’operato e del lascito letterario di PPP – “aveva torto e non avevo ragione”, è l’altro straordinario assioma aforistico con lui l’autore di “Foglio di via” dava conto del tormentato e vivissimo rapporto che intercorreva tra la sua attività culturale e quella del regista di Accattone – per mostrare come l’incontro di due idee contrarie aprisse la strada ad una terza nascosta nelle forme lessicali con cui esse venivano ridotte. Guardando “Lazarus“, il prismatico e lacertoso spettacolo scritto da David Bowie ed Enda Walsh nel 2015 il cui adattamento italiano è di nuovo in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 15 giugno per la regia di Valter Malosti, la mente non può che andare a quell’oscura forma retorica fatta propria da Fortini per attraversare il suo e il nostro Pasolini. Una suggestione, questa, che nasce dall’esalazione fiatosa del suo protagonista nella scena finale, quando è proprio l’alieno Thomas Jerome Newton ad andare/tornare su quel lettino di degenza da cui probabilmente sono scaturite le sue ultime fantasie prima di tentare, ancora una volta vanamente, di costruire un razzo destinato al suo pianeta d’origine. Scritto pochi mesi prima della sua morte, Lazarus è stato piuttosto maldestramente letto come il testamento artistico di Bowie facendo così smarrire il senso di un’operazione molto più proteiforme rispetto alla ferale urgenza di lasciare un contributo terreno che riassumesse, impresa comunque impossibile, la sua carriera. Lo spettacolo infatti si pone come seguito – non cronologico, ovviamente, perché per l’autore di Changes “Il tempo può cambiarmi, ma non posso tracciare il tempo” – del romanzo di Walter Tevis del 1963 “L’uomo che cadde sulla terra”, trasposto poi da Nicolas Roeg nell’omonimo film del 1976.
Lì l’alieno venuto da “un mondo spaventosamente arido” sul nostro “pianeta d’acqua” era interpretato dallo stesso rocker, tanto affezionato a questo viaggiatore interplanetario con crucci umanissimi come la nostalgia per la famiglia, l’estraneazione dal consesso sociale (pur essendone diventato presto un ricchissimo tycoon tecnologico), l’amore per una donna, da proporsi come autore della colonna sonora. Ma se Roeg per il suo film cassò l’idea abbastanza maldestramente, in Lazarus ad accompagnare i tormenti di Newton sono proprio 13 dei brani più famosi della discografia di Bowie – curioso però che in una pièce che rimpiange il grande affetto terreno del protagonista manchi proprio Modern Love; così quel pezzo rimane ancorato indissolubilmente alla carrellata che segue prima Denis Lavant e qualche decennio dopo il suo pupazzo – più quattro inediti scritti appositamente per l’opera e poi presenti nell’album Blackstar, tra cui la struggente title-track che apre e dà il nome allo spettacolo. Più che teatro musicale o musical a cui deputare l’estrinsecazione sonora dei pensieri di Newton, la scrittura di Bowie e Walsh rischia un’operazione più complessa tornando piuttosto sul terreno della mitologia delineata nella carriera del Duca Bianco come farà David Lynch nel poco successivo Twin Peaks – The Return. Come nella terza stagione della serie tv più seminale della recente storia dell’audiovisivo, troviamo quindi prima la ripresa aggiornata ai tempi odierni e poi la messa in discussione dell’apparato iconografico di Bowie. L’isolamento ancor più marcato nell’appartamento dell’East Side a New York del protagonista (gin e twinkies cadenzano ripetutamente i suoi umbratili umori), la selve di schermi che proietta le sue fantasmagorie psicologiche inselvatichendole tecnologicamente tramite glitch o sfasamenti grafici, l’orrore del mondo che la sovrainformazione rende ancora più doloroso trovano allora spazio nell’aerosa scenografia che Malosti porta sul palco grazie al lavoro di Nicolas Bovey e le installazioni video di Luca Brinchi e Daniele Spanò. In Lazarus sono però le canzoni a veicolare i maggiori snodi drammaturgici della vicenda mentre le rade scene di recitazione servono quasi ad accompagnare o preparare le tappe del viaggio interiore di Newton, della trasformazione dell’assistente Elly nell’amata (e perduta) Mary-Lou, della ragazza sognata (ancora The Return: per gran parte della storia la cantante Casadilego fa da Virgilio onirico a Manuel Agnelli come Monica Bellucci a Gordon Cole) e della strana ma violenta minaccia rappresentata dal Valentine interpretato superbamente da Dario Battaglia (sempre Lynch: qui siamo a metà strada tra il Frank Booth di Velluto Blu e, ovviamente, il Phillip Jeffries impersonato proprio da Bowie nella seconda stagione di Twin Peaks e da una teiera nella terza).
Le parole dei testi di Lazarus funzionano quindi come semi puntiformi che generano alberi di senso sotto i quali guardare la statica azione della piéce (avviene poco realmente ma molto si muove internamente) facendosi affascinare piuttosto dalla miriade di suggestioni proposte. Anche le canzoni vengono piegate alla logica di questo inesauribile voglia di attendere/deludere le attese facendo in modo che i nuovi arrangiamenti risultino allo stesso tempo familiari e stranianti. Così ecco che Manuel Agnelli canta sì i pezzi più rock di Lazarus ma è Casadilego a rendere eterea l’invettiva di This is America e l’avvocato ad ingrigire come nemmeno Kurt Cobain era riuscito a fare The man who sold the world. La dimensione live fornita dalla presenza sugli spalti laterali del palco dei musicisti fa vibrare di energia ciò che avviene sul proscenio riuscendo perfino a scongiurare l’effetto karaoke grazie al barocchismo registico di Malosti che rilancia le intuizioni performative del testo originale – il teatro kabuki, il solipsismo decadente di Newton, i suoi arrovellamenti mentali e cosmici – con la solita straripante cura visiva (personalmente non ci siamo ancora ripresi dall’immagine di Cleopatra dark-lady ante-litteram fornita a chiusura della tragedia shakeasperiana da lui diretta). Lazarus riesce allora, in maniera unica e speciale, ad alfabetizzare le emozioni nascoste di uno dei tanti principianti assoluti che passano errabondi su questo puntino invisibile dell’universo, forse eroe per un giorno nella sua mente aliena ma sicuramente per molto più tempo nella nostra così dannatamente terrestre.