Le choix, di Gilles Bourdos

Un road movie notturno girato tutto all’interno di un automobile, che rischia la monotonia visiva ma si risolleva grazie alle grandi doti attoriali di Vincent Lindon. RoFF19. Progressive Cinema.


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Nel 2013 Tom Hardy in Locke, diretto da Steven Night, guidava nella notte verso Londra per assistere alla nascita del suo primo figlio mentre ogni aspetto della sua realtà perfetta sembra tornare in discussione e rischia di crollare. Questo remake d’oltremanica presenta poche variazioni; non ci sno sicuramente dubbi sulla scelta del protagonista, che infatti cade su un altro nome di spicco, Vincent Lindon. Girato quasi interamente all’interno dell’abitacolo di un automobile è chiaro che la performance dell’attore, i suoi umori, la gestualità del volto e delle mani, insieme alla scrittura, assumono peso decisivo sulla riuscita del film. Joseph Cross corre verso Parigi, dove sta per nascere il figlio dell’avventura di una notte con Béatrice, figlio dell’alcool, della pioggia e della tristezza. Tutto si decide a distanza, ed un dispositivo attivato grazie al bluetooth lo tiene a contatto con il mondo: la donna in procinto di partorire ed in preda all’ansia, la moglie messa al corrente della situazione sorpresa e distrutta dal tradimento, i figli ignari e preoccupati del risultato di una partita di calcio, ed un cantiere gigantesco di cui è responsabile in dirittura d’arrivo, sconvolto dalla sua improvvisa assenza.

Ogni singola linea narrativa trova una progressione drammaturgica, mentre nella mente di Joseph riappare il fantasma del padre, figura assente che lo insegue nella coscienza. L’estetica e la fotografia sono la combinazione delle luci rifrangenti dell’autostrada che formano le ombre e scolpiscono l’aspetto psicologico e lo circondano del noioso ed incessante mantello del traffico. In mancanza d’azione diretta tutto si sposta in funzione dei dialoghi, i pianti, la disperazione, in una resa sonora delle emozioni che alimentano speranze d’amore perduto, illusioni, con il rischio di dissipare durante il tragitto i sacrifici di una vita, il lavoro e la famiglia.

In questo road movie a carte scoperte, che sacrifica volutamente il lato visivo, è lampante il pericolo di finire dentro una spirale di monotonia. La durata ridotta e l’esperienza di Lindon riescono a mettere un freno. L’interesse del regista Gilles Bourdos sembra essere orientato al contingente, legato allo sbaglio di un momento frutto di una scelta che implica un prima ed un dopo, senza appello. Alla fragilità delle fondamenta, nonostante la cura e l’attenzione profusa nel realizzarle, ma che restano esposte ad un’oscillazione, ad una fatalità, ad una leggerezza che può costare cara e può diventare uno spartiacque tra il bene ed il male. L’occupazione di Joseph, abituato a camminare sul cemento, metafora di un’esistenza solida ed affidabile, è la pietra di paragone minacciata dal rimorso dell’errore, che trova il rimedio nei suoi ideali, il farmaco per curare la ferita ed evitare un’infezione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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