Le confessioni, di Roberto Andò

Le Confessioni di Roberto Andò è un compendio di ipocrisie e qualunquismo depurato da qualsiasi spinta iconoclata, una fastidiosa versione eucaristica di Todo Modo sempre con il piede in due staffe.

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Ci sono dei film che riescono nella mirabile impresa di trasformarsi in bignami di tutto ciò che non funziona nel cinema italiano: è un club esclusivo, che accetta solo chi riesce attraverso indicibili fatiche a toccare tutte le idiosincrasie che da anni tempestano i cinema nostrani. A prima vista diventarne membri non sembra impresa ardua, invece quando si arriva ai timbri ne manca sempre qualcuno e tocca rifare la fila.
Così uno su mille ce la fa e Roberto Andò, con le sue Confessioni, riesce dove molti hanno fallito compiendo di fatto un piccolo miracolo. In centro minuti racchiude come in uno scrigno tutti i luoghi comuni su cui nidiate di sceneggiatori si accalcano da decenni rendendolo una specie di “messaggio in bottiglia” per le future generazioni, una capsula spaziale alla “come eravamo” sponsored by Mibact. Quando i posteri la apriranno dentro ci troveranno di tutto, dalla tirata contro il tirannico neoliberismo pronto a distruggere le nostre caste esistenze fino al potere taumaturgico della vita contemplativa, sbandierata come unica speranza per sottrarre il mondo ai sanguinosi piani economici. A quest’Armageddon contabile Salus, il monaco interpretato da Servillo, oppone un renitente silenzio, una forma di difesa che man mano si trasforma in un formidabile strumento d’offesa. Tutti i potenti davanti alla sua taciturna saggezza crollano in ginocchio e rivelano le loro tremebonde malefatte, così, tanto per ricordarci ancora una volta come tutto il cinema d’autore si regga sul senso di colpa.

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Gli stessi spettatori sono chiamati a rimettere i loro peccati come il Fus li rimette ai loro debitori, in un esperienza di sala cinematografica che diventa una specie di pellegrinaggio al Divino Amore, già pronti ad inchinarsi all’ennesima metafora urlata come se fosse l’apertura del Mar Rosso. Va vissuto così questo weekend con il morto architettato da Andò, indignandosi il giusto per l’incestuoso rapporto tra politica e finanza ma in realtà senza aver ben chiaro ciò di cui si parla. Lo si fa per sentito dire o per partito preso, come quando si commenta sotto un articolo postato su Facebook senza aver avuto prima l’accortezza di leggerlo. Si è comunque in buona compagnia visto che lo stesso regista siciliano dimostra come il suo interesse verso le congiunture economiche globali si limiti al puntare il dito sul degrado morale, di cui ovviamente il G8 ne è massimo rappresentante.

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In quei palazzi del potere, gozzovigliando nel lusso più sfrenato, poche persone decidono del futuro del mondo intero. Sbagliando ovviamente , sottolinea Andò, com’è giusto che sia visto che sono soltanto degli avvoltoi assetati di sangue senza alcun interesse verso tutti gli esseri umani sottoposti alle loro scelte. Loro, che si scialano in feste con rockstar e caviale, che si rilassano in piscina nel cuore della notte, come possono pensare di poter decidere per la vita dell’intero pianeta? Ovviamente non possono, e non devono, soprattutto. A sollevarli dall’incarico arriva il fratello illegittimo di Jep Gambardella, quello che non ha ereditato l’attico sui Fori e si è dovuto dare ai voti monastici. Lui, chiamato a conferire il sacramento della confessione dal presidente del fondo monetario internazionale (uno che si presenta declamando a tutto schermo “sono giorni che penso molto a John Maynard Keynes” facendo sospirare i devoti di Ballarò), riesce a mettere ramoscelli d’ulivo nell’infernale ruota del liberismo e ad ammaestrare le belve selvagge del capitale.
Detto così sembrerebbe la versione eucaristica di Todo Modo, ma se avesse solo una briciola del talento eversivo con cui Petri metteva alla berlina i poteri forti di quell’Italia democristiana staremo gridando al capolavoro. Qui invece siamo dentro la sua molle nemesi, in cui tutti cadono ma nessuno si fa male. Cattocomunismo at his finest. Travestito a gran festa per mascherare la pochezza di un’estetica formalizzante così derivativa da rimasticare perfino il cinema di Sorrentino, che è già una rimasticatura di suo. Privato di alcuna pulsione od eccesso, ridotto a scivolare inerte sulla sua superficie. Una superficie pulita, levigata, con gli angoli smussati a misura di bebè, perché non sia mai che qualcuno si senta offeso.

Non sia mai che si possa uscire dal qualunquismo dilagante, feroce nelle domande ma innocuo nelle risposte, che strepita e starnazza ma ritorna al suo posto con uno schiocco di dita. Perché in fin dei conti ci si adagia comodamente in questo cinema, tutto messa in maschera e metafora, freddo come il cuore dei banchieri ed ammaestrato come gli animali di San Francesco.

 

Regia: Roberto Andò
Interpreti: Toni Servillo, Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino, Marie-Josée Croze, Moritz Bleibtreu, Lambert Wilson, Daniel Auteil
Distribuzione: 01 Distribution
Origine: Italia/Francia 2016
Durata: 100′

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