Le Donne e il Desiderio, di Tomasz Wasilewski
Il terzo, ambizioso lungometraggio del regista polacco ingessa corpi nudi e pulsioni sessuali in una serie di algidi e disillusi ritratti femminili nella Polonia del 1990
Polonia, 1990. Inizia l’era di Solidarność, il Muro di Berlino è stato abbattuto e un vento di inattesa speranza e libertà sferza l’Europa, soprattutto quella dell’Est. Sembra che sia arrivato finalmente il tempo per molte persone, specialmente donne, di scrollarsi di dosso le rigide norme del collettivo per riscoprire il diritto alla felicità individuale senza sentirsi in colpa. Prende avvio una fase cruciale di transizione che unisce l’euforia della liberazione dalla “Cortina di Ferro” e l’indefinitezza di un futuro tutto da costruire. È in questa particolare atmosfera sociale e politica che la vita di quattro donne, apparentemente serene e realizzate, si incrocia attorno ai loro desideri inappagati. Agata è una giovane madre e moglie che, intrappolata in un matrimonio che non la soddisfa, cerca rifugio in un’altra impossibile relazione: quella con un giovane prete della parrocchia cittadina; Renata è un’insegnante di russo in odore di pensione, affascinata dalla vicina di casa Marzena, un’ex reginetta di bellezza il cui marito lavora in Germania; Iza, sorella di Marzena e preside di un istituto scolastico, intrattiene da sei anni una relazione sentimentale con un medico, padre di una delle sue studentesse.
La parola del regista
Scritto e diretto dal trentaseienne regista e sceneggiatore polacco Tomasz Wasilewski, al suo terzo lungometraggio di finzione (In a Bedroom, 2012; Floating Skyscrapers, 2013), Le Donne e il Desiderio, distribuito internazionalmente con il titolo United States of Love e presentato nel 2016 al CineMart di Rotterdam e al Co-Production Market di Berlino, è stato premiato con l’Orso d’Argento per la Miglior Sceneggiatura alla 66a edizione della Berlinale (LEGGI QUI l’incontro di Sentieri Selvaggi con il regista e il cast).
Racconta Wasilewski: “Le Donne e il Desiderio si basa sulle impressioni e sui ricordi impressi nella mia mente di quando, nel 1990, avevo poco più di 10 anni. È nato gradualmente con la storia di Agata, che mi ha spinto poi a indagare su come vivessero le donne negli anni Novanta in Polonia, in quel periodo di transizione e di trasformazione del sistema (…). Quindi, in poche parole, il mio film non è altro che l’insieme di riflessioni di un uomo che sta crescendo e che apprezza valori differenti rispetto a prima. Del resto, le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia crescita, molto più importante di quello della politica. Ho vissuto la trasformazione sociale e politica del mio Paese attraverso gli occhi delle donne. Vivevo in un complesso di appartamenti che appartenevano all’esercito, tutti i padri lavoravano nella stessa divisione, mentre le madri si prendevano cura dei figli. Erano fondamentalmente da sole a casa e si incontravano tra loro per le scale o nei negozi di alimentari ma erano, per i bambini come me, tutto il loro mondo (…). Le donne, inoltre, si facevano visita senza preavviso, le relazioni erano meno formali di oggi. Ricordo ancora il giorno dell’onomastico di mia madre che è coinciso con la partenza di mio padre per tre anni a New York: molte vicine sono venute da me a mangiare e festeggiare. Ricordo tutte le donne di allora ma nessuna è diventata un personaggio del mio film. Le quattro donne protagoniste sono tutte fittizie e basate su impressioni che ho raccolto durante la mia vita. Da piccolo, ad esempio, ho preso lezioni di danza e il personaggio di Marzena ricorda quello della mia insegnante di corso. Ma ricorda anche la mia vicina, Agnieszka Pachałko, eletta poi Miss Polonia 1993. Per Iza ho cercato invece di ricordare la preside della mia scuola”.
Una rapsodia polacca
Il cinema di Wasilewski mette al centro la figura della donna e la sua dimensione corporea e psicologica. Considerato uno scopritore di nuove sensibilità artistiche e di nuovi volti al femminile, alla stregua di un Almodóvar e di un Allen, dopo gli intensi ritratti femminili delle pellicole precedenti ad opera di Katarzyna Herman e Agata Buzek (In a Bedroom) e Izabela Kuna (Floating Skyscrapers), il giovane cineasta propone una prospettiva corale come pretesto per approfondire individualmente il percorso emotivo di quattro donne diverse per età e temperamento. La narrazione è affidata ad un montaggio sincopato che conferisce al film l’aspetto “dilatato” di un racconto suddiviso in quattro episodi e che, piuttosto che attraverso una struttura sinfonica ad ampio respiro, procede rapsodicamente per giustapposizioni ed incastri successivi. Dopo la scena d’insieme iniziale – un banchetto in cui si commemora la dipartita di una quinta donna – ciascuna delle protagoniste viene presentata di spalle, pedinata da una camera a mano che ne segue il passo e ne interpreta simbolicamente il cammino accidentato e la potenziale trasformazione. A questi movimenti “sobbalzanti” e documentaristici della macchina da presa fanno da contraltare lunghi ed immobili piani sequenza, spesso in profondità di campo, che riprendono silenziosi isolati popolari, stradine di quartiere di notte o al tramonto illuminate dai lampioni e paesaggi brulli ed immoti che si distendono a perdita d’occhio, come a creare un contrasto insanabile tra movimento della volontà e tensione evolutiva della psiche, da una parte, e un contesto sociale – e finanche ideale – auto-riflettente, sempre uguale e privo di prospettive, dall’altra. La dimensione narrativa, fredda ed ingessata, alimenta un sentimento di prigionia e di stagnazione che annienta lo slancio ideale e romantico delle protagoniste, fino a disegnarsi sulle loro espressioni (quasi) perennemente tese e malinconiche e ad afferrare allo stomaco lo spettatore con un effetto di straniamento anche fisico.
Nudi e vanitas
Le Donne e il Desiderio sembra riprendere la tematica dei corpi sviluppata nell’ultima pellicola della regista, sceneggiatrice e produttrice polacca Małgorzata Szumowska (spesso presente in concorso a Berlino e componente della giuria nella 66a edizione), Corpi (2015), personalizzandola attraverso una raffigurazione che unisce sguardo distaccato e riflessivo teso ad una oggettivazione formale della dimensione corporea, tensione espressionista volta a sovraccaricare la trepidazione della carne fino quasi al grottesco ed un pittoricismo modellante che sembra richiamare i nudi di grandi maestri come Rubens, Goya, Giorgione, Ingres e, soprattutto, il Degas disegnatore degli “esercizi intimi”, con l’occhio dell’artista che voyeuristicamente spia dal buco della serratura, indifferentemente, corpi sensuali ed allettanti e corpi sfatti e flaccidi, resi difformi dall’accidia, dall’età o dalla trascuratezza. Quella di Wasilewski sembra quasi una rilettura contemporanea del tema, eminentemente seicentesco, della vanitas, attraverso un’esibizione insistita che fa del corpo, insieme, tableau vivant e natura morta, involucro che imprigiona e crisalide pronta a lib(e)rarsi, ma in cui a dominare è, appunto, un senso costante di precarietà, caducità e marcescenza come metafora a più livelli di senso dell’esistenza umana.
Tra simbologia epidermica e tabù sacrali da sfatare
Le pulsioni sessuali e sentimentali sembrano costituire il punto di osservazione privilegiato – o meglio, si direbbe anche l’unico – attraverso il quale il regista scandaglia la tensione ideale e la spinta liberatoria ingenerata dallo sgretolamento del regime comunista e dall’apertura del fronte occidentale dell’Europa. Se si eccettuano sporadici riferimenti isolati – il brindisi a Solidarność del corpo docente dell’istituto scolastico diretto da Iza; la diffusione, per quanto ancora clandestina, delle VHS amatoriali di genere pornografico come evasione dalla routine quotidiana; la conversazione telefonica tra Marzena e il suo compagno, emigrato per lavoro nella Germania dell’Est e potenziale testimone oculare delle trasformazioni in atto; la presenza di miti occidentali come il culto del corpo scolpito dall’aerobica e dall’acquagym e la deificazione su poster di celebrità pop come Whitney Houston – la dimensione socio-politica è relegata su uno sfondo muto: è la metafora epidermica a prenderne in toto il posto e a sostanziare lo spazio della narrazione, mentre, specie nella prima parte del film, emerge un altro tratto distintivo della storia polacca, quello della relazione comunità-sacralità e della presenza della parola di Dio (il Dio cattolico della religione più diffusa nel Paese) e dei suoi ministri umani. Sermoni, celebrazioni di messe, approccio catechistico (in chiesa come a casa e a scuola) scandiscono i tempi di una liturgia pervasiva e persuasiva fino alla scena madre del rito apotropaico della “protezione” della casa in cui Agata vive con la sua famiglia e proietta sul marito le proprie tempeste ormonali suscitate dallo stesso sacerdote benedicente di cui è segretamente invaghita (in una scena, campeggia su un muro il manifesto di Uccelli di Rovo). E un che di rito purificatore e di abluzione remissoria traspare nella scena in cui Renata deterge il corpo nudo e privo di sensi di Marzena, deturpato dal seme maschile, baciandole con trasporto una mano. In una paese non ancora pronto ad introiettare la libertà e abituato – nunc et semper, sembra dirci il regista – a vivere al ritmo delle certezze, per quanto repressive ed oppressive, dell’ideologia di regime, soffocamento e congelamento appaiono le sole traiettorie percorribili di fronte all’oceano sconfinato delle possibilità e di una way of life da scegliere e da forgiare in fieri. E il prefisso della privazione sembra accompagnare e declinare ogni potenziale sviluppo in un meccanismo scenico nel quale si entra in punta di piedi e senza essere visti (la canonica in cui il sacerdote prende una doccia osservato furtivamente da Agata e l’appartamento di Marzena spiato e poi violato dalla dirimpettaia innamorata) e dal quale ci si congeda senza colpa e senza rumore (la bambina che annega). Le piccole concessioni sembrano non poter travalicare una dimensione domestica, come testimonia la stravagante ma riuscita trovata degli uccelli esotici liberi di svolazzare nella sala da pranzo dell’appartamento di Renata e, finanche, di condividerne i pasti.
Disincanto e scacco dell’empatia
Ad interessare il regista è il discorso sulla coscienza femminile, mutuato in parte dallo sguardo di un maestro del cinema polacco come Kieślowski (di cui, del resto, Wasilewski cita un frammento del primo episodio del Decalogo – Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro dio all’infuori di me (1988) – e della sua simbologia “liquida” nella scena del ghiaccio che si rompe causando l’annegamento della figlia del medico amante di Iza davanti agli occhi della donna che, respinta solo poco tempo prima dall’uomo, assiste imperturbabile ed immobile alla tragedia). In questo universo femminile sembra dominare, tuttavia, il maschile, con uomini che usano, abusano e sfruttano il corpo delle donne, il più delle volte con la complicità di queste ultime, e questa dis-umanizzazione delle emozioni, nonché lo scacco dell’empatia, producono un disturbante effetto boomerang, finendo con il veicolare un messaggio sessista che rovescia l’intenzione originaria. La visione autodistruttiva e pessimistica del regista ammanta la pellicola di un respiro algido che cristallizza la stessa disponibilità dello spettatore a seguire con empatia il destino delle protagoniste, distanti statue di gesso, per quanto pervase dalla scossa fibrillante del desiderio erotico, laddove anche l’amplesso più selvaggio appare spolpato di autentico trasporto passionale e ridotto a rituale meccanico di sopraffazione e di possesso. E qui Wasilewki sembra sconfinare nella visione volutamente repellente e nella “poetica documentaristica del marcio” di un Ulrich Seidl (il nudo di Dorota Kolak richiama, infatti, quello di Margarethe Tiesel in Paradies: Liebe, 2012).
Uno schema preciso guida la regia di Wasilewski, una visione lucida e disillusa che inevitabilmente finisce con il “castigare” lo sviluppo narrativo, imprigionando le protagoniste e le loro dinamiche emotive in un percorso che non procede alla ricerca di significati e sfumature di senso, perché la tesi è già fissata in partenza e la si coglie al massimo per “accumulo di prove”. Dunque, la cupezza di fondo diventa una vera e propria cifra stilistica in una pellicola in cui, peraltro, ambizione e pretensione registica sono elementi così intrinseci e conclamati da non costituire eccessivo motivo di fastidio. La fotografia del direttore rumeno Oleg Mutu – con i suoi colori de-saturati e virati su tonalità argentee e che, significativamente, diventa più vibrante ed accesa nella raffigurazione degli oggetti legati ai bisogni fisiologici e ad un utilizzo consumistico, come le vivande e le bevande, i capi di abbigliamento e il trucco – permea di una raffinata patina cerea le immagini e si rivela funzionale alla gelida poetica della solitudine del regista, quasi conferendo alla pellicola il singolare aspetto di un album di illustrazioni d’epoca in cui tutto è già ricordo impresso su carta e il futuro è solo un riflusso del passato.
Titolo originale: Zjednoczone Stany Miłości
Regia: Tomasz Wasilewski
Interpreti: Julia Kijowska, Magdalena Cielecka, Dorota Kolak, Marta Nieradkiewicz, Andrzej Chyra, Łukasz Simlat, Tomasz Tyndyk
Distribuzione: Cinema s.r.l.
Origine: Polonia/Svezia, 2016
Durata: 104’