Le Giornate del Cinema Muto 2025. Max Fleischer, pioniere dell’animazione delle origini
Durante le Giornate del Muto di Pordenone è stato presentato il lavoro dell’animatore padre di Betty Boop, inventore del Rotoscopio e omaggiato in Chi ha incastrato Roger Rabbit
Le Giornate del Muto di Pordenone hanno tributato un omaggio a Max Fleischer, una delle personalità più influenti del cinema d’animazione delle origini, dedicando all’animatore una retrospettiva di 16 cortometraggi aventi per protagonista KoKo il Clown, uno dei suoi personaggi più celebri realizzati tra il 1920 e il 1928.
Per Fleischer, nato a Cracovia nel 1883, il suo lavoro, più che una vocazione, era una missione: non era solo interessato a fare un’animazione di qualità, ma cercava costantemente una resa realistica dei loro movimenti sullo schermo. Quando, a metà degli anni ’10, fu assunto per migliorare la qualità del movimento dell’animazione del progetto Popular Science Monthly, il disegnatore accettò quindi volentieri la sfida.
Questo lo portò, con l’aiuto dei suoi fratelli, a inventare il Rotoscopio, uno strumento pensato per ottimizzare la tecnica di animazione soprattutto dei singoli personaggi. L’approccio era vicino espressamente realista: i soggetti venivano ripresi dal vivo ed loro movimenti venivano ricalcati in tempo reale attraverso il Rotoscope, che proiettava le immagini su un pannello di vetro lucido, su cui gli animatori potevano disegnare liberamente.
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Questa tecnica fece fare passi da gigante alla ricerca di realismo nell’animazione e l’uso del Rotoscopio (che verrà riscoperto negli anni ’70 da artisti come Ralph Bakshi) è ancora centrale in certo cinema d’animazione.
Per creare KoKo, il modello fu lui stesso: Fleischer si fece riprendere mentre saltellava vestito da clown dal fratello Dave, che poi sarebbe diventato il regista dei film cortometraggi dedicati al personaggio. Partendo da queste riprese, ci sarebbe voluto un anno per creare un movimento fluido di un minuto.
KoKo era però destinato a cambiare l’animazione per sempre: i movimenti fluidi, ma anche la varietà di personaggi che Max Fleischer crea per accompagnare il suo piccolo clown — canguri pugili, un altro pagliaccio che dovrebbe essere il suo fratellino, un cattivo dalla faccia enorme che minaccia il protagonista, un fantasma e un diavolo.
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La serie di KoKo, Out of the Inkwell, che verrà sviluppata e distribuita dal 1918 al 1927, non colpisce solo per la capacità tecnica che caratterizza le animazioni del piccolo clown che salta, corre e passa da un foglio all’altro, ma anche per l’incredibile creatività, fantasia e libertà dei racconti.
Ed è lo stesso KoKo a rappresentare tutto questo, pronto a movimentare la narrazione con la sua incapacità di obbedire al suo creatore/padre. Il personaggio dimostra una spinta vitale e curiosa, di cui a volte si pente, ma che lo porta a conoscere e capire il mondo che lo circonda. L’intento di Max Fleischer è quindi che KoKo non sia solo la sua creatura, ma un soggetto “autonomo” che con il passare del tempo possa emanciparsi.
Walt Disney ci ha abituato a un mondo di cartoni leggibile, chiaro, mentre KoKo rappresenta un bambino clown dispettoso che vuole conoscere il mondo e farne parte, anche se questo significa litigare ed entrare in conflitto con il suo papà.
Non è forse questa la metafora della crescita?
Un’altra particolarità dei cortometraggi animati di Max Fleischer è che sono a tecnica mista: insieme a KoKo, nei film c’è anche il suo stesso disegnatore, rappresentato in live action, che si contende la scena con il clown.
Il live-action unito all’animazione è stato per anni dimenticato, ma è una parte importante dell’animazione delle origini e verrà poi riscoperto da film come Chi ha incastrato Roger Rabbit e Fuga dal mondo dei sogni, altri esempi di grandi saggi sul rapporto uomo-mondo dei cartoni animati. Proprio per questo, in Chi ha incastrato Roger Rabbit vi è un tributo al disegnatore, dove per la prima volta si vede la sua Betty Boop a colori.
Poi, negli anni ’30, arriverà Betty Boop, e anche questa sarà un’altra rivoluzione per il cinema animato: la piccola ragazza tutta curve, che rappresentava i desideri di quegli anni, insieme al suo cane Bimbo. All’inizio il personaggio era una cagnetta canterina in Talkartoons, ma è mettendosi sulle due gambe e umanizzandosi che ottiene successo e una serie tutta sua: Betty Boop. Per la prima volta, la protagonista dell’animazione è una donna, non più solo una qualche compagna dell’eroe. Betty incarna il mito della femminilità di quegli anni, che deriva dall’immaginario cinematografico dominato da dive come Marlene Dietrich, Bette Davis e Joan Crawford, belle, forti e indipendenti. In realtà, Max Fleischer si ispirò a due cantanti dell’epoca: Clara Bow e Helen Kane. Betty Boop è ancora oggi un’icona pop americana intramontabile.
Max Fleischer disegnò anche numerose avventure di Popeye the Sailor Man e una serie animata di nove episodi di Superman, in colori sgargianti Art Déco, caratterizzata da un linguaggio ancora modernissimo. Dal 1919 al 1942, gli studi Fleischer realizzarono quasi 700 cortometraggi animati, senza però poterne far valere i diritti, che furono venduti ad altri studi. Ora Janet Fleischer Reid, la nipote di Max, come suo nonno ha una missione: cercare di recuperare questi film, mostrarli restaurati al mondo, e grazie alla sua tenacia e alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, questo è stato possibile.
























