Le lacrime amare di Petra Von Kant, di Rainer Werner Fassbinder

A cinquant’anni di distanza spicca ancora per la radicalità con cui mette in scena la discesa dell’eroina nella solitudine. Un racconto lacerante che continua a influenzare i cineasti contemporanei

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C’è un Fassbinder pre Le lacrime amare di Petra Von Kant e uno successivo all’iconico film. Se fino a quel momento la poetica del cineasta tedesco si è mossa tra l’ispirazione godardiana e il formalismo d’avanguardia di Jean-Marie Straub – con cui ha lavorato nei panni di attore in un cortometraggio del 1967 – è solo con Le lacrime amare di Petra Von Kant che la parabola filmica del regista conosce una svolta significativa, dove la matrice melò diviene veicolo prediletto per la concretizzazione del pensiero nichilista con cui Fassbinder mette in scena la decadenza dei valori nella Germania Ovest di quegli anni. Un’intenzione comunicativa già presente ne Il mercante delle quattro stagioni (1972) e che trova definitiva affermazione nel folgorante incontro con Douglas Sirk, punto di non ritorno di una visione cinematografica che farà del melodramma la (sola) cornice ideale attraverso cui “liberare le menti” e indurre gli uomini ad una progressiva e dolorosa comprensione della propria finitezza esistenziale.

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Le lacrime amare di Petra Von Kant si suddivide in quattro atti, focalizzati su macro-conversazioni che dispiegano non solo la personalità, le idiosincrasie e gli atteggiamenti di Petra Von Kant – una eccentrica e memorabile fashion designer mossa dalla narcisistica volontà di “appropriarsi” degli oggetti del desiderio, attraverso la sottomissione (l’assistente Marlene) o la possessione sentimentale (Edith) – ma che ne delineano il progressivo (e tragico) innamoramento, in una irreversibile e lacerante discesa nell’abisso della solitudine. Nello spazio soffocante delle mura domestiche – da cui il film non esce mai – la parola diviene il simbolo dell’evasione, mezzo unico che consente a Petra di viaggiare temporalmente (i ricordi delle relazioni passate), mostrandone il continuo e irrefrenabile cambiamento interiore. Al primo dialogo tra la protagonista e la Baronessa Sidonie, dove ella si erge (ancora) come dominatrice assoluta del dibattito, corrisponde un segmento che ne tramuta lo statuto. Nel confronto con l’amata Edith, Petra non conduce più la conversazione, ma assume il mero ruolo di uditore. Un cambio di paradigma di cui Fassbinder si serve per associare la progressiva infatuazione della stilista alla perdita di controllo su di sé, anticipando un cambio di prospettiva che la porterà sull’irreparabile sentiero della disperazione. Petra è, di fatto, schiava del suo stesso sentimento: accertata l’impossibilità di possedere la sua amata (nel terzo atto), ogni ferita diviene per lei un dolore insopportabile, un vulnus che certifica il crollo delle certezze di una donna (ormai) fragile, che vede disintegrarsi quella stessa solidità psico-fisica su cui costruisce la sua intera ragione d’essere. Una condizione drammatica a cui il film dà corpo non solo narrativamente, ma anche attraverso espedienti di natura estetica, come il continuo cambio di vestiario (si passa dai colori sgargianti dei primi atti, al trucco essenziale del tragico finale), e la presenza di Marlene, che funge da cesura narrativa (è lei a chiudere ogni segmento), nonché da figura empatica per lo spettatore, dal momento che le sue azioni – pianto, preoccupazione per Petra e successiva liberazione dal suo giogo – corrispondono alle diverse emozioni che Fassbinder vuole attivare nel suo pubblico.

Ed è attraverso il racconto di una lacerante storia di perdizione dall’abito universale, che Le lacrime amare di Petra Von Kant è stato in grado di dialogare con gli spettatori di tutto il mondo, consacrando Fassbinder sull’altare dei grandi autori del cinema. A distanza di cinquant’anni, infatti, osserviamo il debito che molte opere hanno nei suoi confronti, dall’uso di Smoke Gets in Your Eyes in Three Times e in Weekend a sottolineare la separazione/attrazione dei personaggi, all’omoerotismo intergenerazionale di Sils Maria. Un film paradigmatico che continua a trascinare lo spettatore con sé, fino all’ultimo, beffardo sorriso di Petra. Ogni pretesa di integrità emotiva è ormai stata definitivamente abbandonata.

 

Titolo originale: Die bitteren Tränen der Petra von Kant
Regia: Rainer Werner Fassbinder
Interpreti: Margit Carstensen, Hanna Schygulla, Katrin Schaake, Irm Hermann, Eva Mattes, Gisela Fackeldey
Durata: 124′
Origine: Germania Ovest, 1972

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.8
Sending
Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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