Leggerezza di un cinema oggettuale

Il cinema di Wong Kar-wai sembra fatto apposta per filmare un’idea che si riverbera poetica ad ogni visione di un suo lavoro. La forza propulsiva del suo cinema, infatti, è quell’ineffabile anelito di vita che manovra i suoi personaggi in una sorta di danza fra i fotogrammi. E’ un cinema per questo lieve e delicato, nel quale più che le parole contano i gesti e, soprattutto, gli oggetti. Proprio così: il cinema di Wong Kar-wai è un cinema ‘oggettuale’, nel quale gli stessi protagonisti sono meri strumenti ridotti alla propria iconicità, corpi monadi in cerca del proprio io e scrutati nel loro vagare attraverso le tracce lasciate dagli oggetti che costituiscono il loro microcosmo. Non è difficile notare infatti quanto il regista ami inquadrare i suoi personaggi riflessi su qualche superficie, o illustrare la loro presenza attraverso alcuni dettagli: le scarpe, gli anelli, il fumo delle loro sigarette.
L’importanza dell’oggetto come intermediario della relazione clandestina fra i due adulteri amanti di In the Mood for Love si estrinseca soprattutto in una gran cura dei colori (sempre ottimo il lavoro del maestro delle luci Christopher Doyle) e, soprattutto, della disposizione spaziale degli elementi solidi. Una cura che il regista ha assimilato dalla lunga tradizione operistica che muove il cinema orientale, da sempre attento alle coreografie, agli spostamenti anche minimi dei corpi e dei materiali che pone nel campo dell’inquadratura e che, per questo motivo, dà il senso di una “danza degli oggetti”. Una danza in questo caso statica, ovviamente, ma che è parte integrante della levità e della grazia infusa nel film e che si intreccia con estrema naturalezza alla musica, altro elemento cardinale per il cinema dell’autore. Una musica costante accompagna ogni storia di Wong Kar-wai, da “California Dreaming” in Hong Kong Express a “Forget me” in Angeli perduti. Forse perché è l’idea stessa della musica ad essere affine alla sua idea di cinema: un insieme di piccoli elementi (i suoni, le note) disposti in modo da ottenere un risultato d’insieme armonioso e caldo. Per tutto questo dunque il film sente di poter ignorare gli scarti di velocità impazzita impressi dal regista ai fotogrammi degli ultimi suoi tre lavori: la presenza sottile e leggera di Maggie Cheung anzi retrodata il film al secondo lavoro dell’autore, l’altrettanto ‘statico’ e discreto Days of Being Wild, destinato a esplodere solo nella concitata sparatoria finale. Qui invece il film procede compatto per i suoi 98 minuti di durata, totalmente concentrato sui suoi attori, costretti in set claustrofobici per star loro addosso e illustrare l’idea di un cinema piccolo e intimista.
I due si uniscono poiché accomunati dal dolore: i rispettivi coniugi, infatti, sono lontani da loro, quel marito e quella moglie che indossano “la stessa cravatta” di lui o portano “la stessa borsa” di lei e che forse sono amanti. Così i due si inseguono, provano la pantomima di una futura separazione (o riconciliazione, chissà) con il consorte infedele, senza sfiorarsi, lasciando al mondo che hanno costruito con i loro gesti, i loro oggetti, i silenzi, gli sguardi, il semplice e quotidiano sfiorarsi sulla scala del loro palazzo, la completezza del loro rapporto. Un altro mosaico dunque della personalissima idea di cinema di un regista mai sazio dei propri obiettivi e sempre pronto a rimetterli in gioco attraverso l’occhio curioso ma discreto della sua macchina da presa.

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