L’engloutie, di Louise Hémon

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Opera prima di grande potenza visiva e concettuale, un folk horror olmiano con uno sguardo sperimentale e già maturo. CANNES78. Quinzaine des Cinéastes

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Quando Aimée (Galatea Bellugi) arriva a Soudain, un piccolo borgo delle alpi francesi, per insegnare nella minuscola scuola locale, è una notte di tempesta del dicembre 1899. Un inizio da manuale, l’arrivo in una piccola comunità di un corpo estraneo, destinato a stravolgere gli eventi e diventare portatrice di cambiamento, a generare inquietudine ed a sfidare le regole abitudinarie del villaggio. Nell’imponente scenario montuoso sepolto dalla neve la ragazza trova un mondo immobile costruito di voci e leggende, dove si stabilisce il senso di appartenenza, riuniti intorno al fuoco di un camino ad ascoltare vecchie storie, spesso un residuo del passato, di riti dimenticati o proibiti. E la natura non addomesticata simboleggia forze incontrollabili, ancestrali, spesso connesse alla sessualità, alla morte o al sacro. Ma la sua presenza trascina qualcosa che va oltre il semplice contrasto di costume, porta con sé una minaccia sensuale, diffonde una tentazione che accende di desiderio gli uomini, che intanto iniziano a sparire nel nulla.

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L’opera prima nel lungometraggio di finzione di Louise Hémon, grande ammiratrice di Chantal Akerman, John Smith e Chris Marker, ed un passato da studentessa al DAMS di Bologna, ha un approccio visivo sperimentale e una scrittura che conferma l’interesse etnografico ed antropologico della regista francese, già mostrato nel documentario Le voyage de documentation de Madame Anita Conti presentato a Vision du Réel, dove attraverso la memoria e gli archivi cerca di far rivivere la figura della prima oceanografa. L’uso simbolico degli spazi proietta paure collettive, tensioni storiche e crisi interiori in un luogo sede dell’inconscio culturale: l’impiego di colori pittorici come il buio spezzato da un debole luce naturale, l’azzurro del cielo o un manto bianco che si diffonde a perdita d’occhio, con le ombre invase dal tormento, l’aspetto scenografico radicale si nutre degli elementi atmosferici estremi che fanno del lato estetico una chiave di lettura primaria. Poi la potenza delle immagini lascia spazio al sottotesto metaforico e si esplicita nelle tematiche portanti, una riflessione sottile sulle conseguenze dell’intrusione del mondo moderno e la metamorfosi delle dinamiche sociali in quello rurale, tradizione e progresso. Un folk horror olmiano, che pone l’enfasi sulla fotografia, gli ambienti inquietanti, i silenzi lunghi ed i rumori lievi ma insistenti, con un ritmo dilatato ed una tensione continua, ed affronta traumi, lutti ed alienazione tra realtà ed allucinazione.

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