"L'eredità", di Per Fly

Dalla stretta e irrimediabilmente oppressiva eredità dogmatica, una prova transitiva d'ibridismo formale che rivendica spazi di libertà. Tracce indelebili nei richiami di "sangue" imbrattano in superficie il tessuto evolutivo del film, lasciando l'impressione di un ermetismo regressivo, generato dai sensi di colpa e da un abuso del marchio di fabbrica.

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Ci risiamo: l'applicazione pedissequa delle regole è un falso problema. È un gioco noioso e fuorviante scoprire le "taroccate" stilistiche di film apparentemente attanagliati nella corrente danese, oppure quanto essi aderiscano all'uniforme estetica "imposta".  Meglio (o peggio) smascherare il senso dell'arte, nella sua percezione seriale che non oppone resistenza alla pulsione fondamentale di nascondere gli indizi. Fly (al terzo lungometraggio) può essere considerato un fedele seguace del "Dogma"? Sembra combattuto, in realtà, dalla voglia di mostrare ciò che più ci ammalia e incuriosisce esteticamente e contemporaneamente dal desiderio di tagliare il cordone appena se ne presenti l'occasione. Il rampollo Christofferr (Ulrich Thomsen) è succube della madre (vedi Amleto). Il padre si è impiccato e lui deve rinunciare alla vita costruita lontana dalla famiglia per far ritorno e per assumere il comando dell'impresa. Questa volta la minaccia che si annida nella standardizzazione dei contenuti è quasi scongiurata. La dittatura seriale occulta e pervasiva della macchina si stempera, si affievolisce: l'occhio meccanico non si aggira tra le sagome (vedi Festen) come un ospite segreto, con la presunta inconsapevolezza per ciò che accade intorno ad essa. Dalla stretta e irrimediabilmente oppressiva eredità dogmatica, una prova transitiva d'ibridismo formale che rivendica spazi di libertà. Però tracce indelebili nei richiami di "sangue" imbrattano in superficie il tessuto evolutivo del film, lasciando l'impressione di un ermetismo regressivo, generato dai sensi di colpa e da un abuso del marchio di fabbrica. Anche l'alienazione temporale e geografica, bandita dalla dinastia dominante perché la verità sia braccata, devono mascherarsi tra salti cronologici, modificazioni cromatiche (grigia la Danimarca, lividamente solare la Svezia) e interruzioni narrative, smorzando le aspettative di decifrazione delle dinamiche sociali e drammi generazionali. La ricerca di significati reconditi e para(noie) metalinguistiche lasciano spazio ad un cinema comunque in libertà vigilata che non trova il coraggio di lasciarsi andare completamente, compresso da una risposta sospesa: blocco afasico e allusivo dello svelamento. E forse è proprio questo il gioco di prestigio: velare l'esasperata aspettativa di verità tanto quanto un parziale svestimento che aumenti il desiderio di nudità totale. Il ri(s)catto corrode le pareti ispessite e gelide intorno ai pesanti compromessi e alle concessioni, conseguenti a un modello di cinematografia, il cui scorrere a tratti punteggiati e difformi prova a scardinare l'irrigidimento sopraggiunto e insito in ogni divincolante inquadratura.

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Titolo originale: Arven


Regia: Per Fly


Sceneggiatura: Per Fly, Kim Leona, Dorte Høgh, Mogens Rukov


Fotografia: Harald Gunnar Paalgard


Montaggio: Morten Giese


Musiche: Halfdan E


Scenografia: Søren Gam


Costumi: Stine Gudmundsen-Holmgreen


Interpreti: Ulrich Thomsen (Christofferr), Lisa Werlinder (Maria), Ghita Nørby (Annelise), Karina Skands (Benedicte), Lars Brygmann (Ulrich)


Produzione: Zentropa Productions


Distribuzione: Teodora Film


Durata: 107'


Origine: Danimarca, 2003


 


 

 


       



 

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