Les Sauteurs, di Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibé

Una sponda teme l’invasione, una sponda spera in una vita migliore. Come lo sguardo degli autori, pronto a ricongiungersi quando il desiderio di raccontare prossimo alla visione dei fatti

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Ha partecipato a 50 festival, vinto 15 premi tra cui l’Amnesty International Award, la distribuzione è curata da ZaLab, che da anni promuove le opere internazionali sul tema dell’immigrazione. In più, Premio Tasca d’Almerita al Salina DOC Fest 2016, nonché Premio della giuria Ecumenica al Festival di Berlino 2016, sezione Forum, ex aequo con Barakah Yoqabil Barakah di Mahmoud Sabbagh. Nel nord del Marocco esiste l’enclave spagnola di Melilla: un pezzetto di Europa in Africa. Dalla montagna sovrastante, un migliaio di migranti africani pieni di speranza guardano la recinzione che separa il territorio marocchino da quello spagnolo. Il maliano Abou è uno di loro e per oltre un anno ha incessantemente cercato di saltare la recinzione di filo spinato, evitando gli idranti e le brutali autorità locali. Abou è l’autore delle riprese (e curatore della fotografia) che raccontano la storia di chi lotta per conquistarsi dignità umana e libertà in una delle frontiere più militarizzate al mondo.

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201609714_2_IMG_FIX_700x700Le parole di uno dei registi, Moritz Siebert (quarantaquattrenne di origini svedesi): “Il passaporto è la parte più nobile di un uomo”, disse un uomo nei “Dialoghi di profughi” di Brecht. Settant’anni dopo, con notizie giornaliere sulla situazione dei migranti alle frontiere d’Europa, questa frase rimane di una disturbante attualità. Per quelli di noi nati dal lato “giusto” della frontiera, i muri invalicabili restano un’immagine remota. Ma per quelli dall’altra parte, come Abou, che hanno un passaporto maliano, le opzioni sono molto limitate. Quando le notizie sui massicci tentativi di superare le recinzioni di Melilla inziarono a fiorire, nel 2014, fummo molto colpiti dalla determinazione della maggior parte degli uomini sub-sahariani sul Monte Gurugù.
Senza curarsi dei numerosi fallimenti, o di quanto fossero dolorosi – sembravano semplicemente rialzarsi, scrollare via la polvere e ricominciare daccapo, verso il loro obiettivo. Certo non mancano storie sulle tragedie che accadono alle frontiere d’Europa. Ma la nostra impressione è che le immagini siano comunque poche. Una voce sembra sempre mancare: la voce delle persone coinvolte. Con l’obiettivo di sfidare l’immagine predominante del migrante, ci siamo per prima cosa confrontati con il nostro approccio da filmmakers.
Abbiamo deciso di assumere completamente il punto di vista del nostro protagonista, e lasciare a lui la decisione su quali aspetti filmare. Quindi abbiamo consegnato la videocamera ad Abou.
Eravamo curiosi di vedere cosa avrebbe filmato, quali scelte estetiche avrebbe fatto, e come queste scelte si sarebbero conciliate con le immagini esistenti dei migranti. L’approccio di Abou inizialmente era differente dal nostro. Il suo scopo principale era raccontare al mondo della enorme ingiustizia che lui e i suoi amici stavano subendo a Melilla. Ma gradualmente filmare in sé si è trasformato per lui in una forma di espressione. Abou è passato dall’essere protagonista a co-regista”
.

201609714_1_IMG_FIX_700x700“Quando filmo riesco a sentire che esisto”, dice appunto Abou, che ad un certo punto della storia raccontata, sembra girare una vera e propria opera africana, in Africa, ma non al confine, nella terra di nessuno o di mezzo, ma decisamente nel continente nero, con i suoi ritmi, le sue meravigliose illusioni e ingenuità di sguardo. Ci sono ovviamente le interferenze tecnologiche dell’infrarosso, a solcare uno spazio, non più un luogo, che viene attraversato, mangiato, evitato. Ci sono poi ancora metri e metri da percorrere per raggiungere il mare, il mediterraneo che si intravede e si riflette nelle riprese panoramiche, perché lo spazio mediterraneo è scenario di migrazioni da sempre ed è spaccato in due: una sponda nord che teme l’invasione, una sponda sud che spera in una vita migliore. Spaccato in due come appunto lo sguardo degli autori, che si “affidano” ad Abou, ma pronto a ricongiungersi nel momento in cui il desiderio di raccontare porta più vicino le cose, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dettaglio mediante la ricezione della sua riproduzione. I saltatori sono contemporaneamente ovunque, accanto alle cose lontane come a quelle vicine e perfino la loro facoltà di immaginarsi altrove, di mirare liberamente a esseri reali, dovunque si trovino, attinge alla visione.


Titolo originale: id.
Regia: Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibé
Interpreti: Abou Bakar Sidibe
Distribuzione: ZaLab, Wonder Pictures/Unipol Biografilm Collection
Durata: 84’
Origine: Danimarca, 2016

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