Les sorcières de l’Orient, di Julien Faraut

Julien Faraut traduce in spettacolo il linguaggio delle immagini con la tensione verso il mito, connaturato a qualsiasi celebrazione dello spettacolo sportivo. Al Festival di Pesaro

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Julien Faraut non è nuovo al cinema legato allo sport, forse perché lavora nell’archivio di un centro sportivo e familiarizza di continuo con le immagini che hanno a che fare con le diverse discipline. Qualche anno fa, sempre qui a Pesaro, il suo L’impero della perfezione indagava con inattesa e calibrata attenzione sulla genialità irregolare di John McEnroe. Faraut aveva realizzato un film elegante e appassionante, che sapeva centrare il tema della ricerca della perfezione, frutto, per il tennista americano, di una scontrosa genialità. Ci siamo accorti, con quel film, che Faraut sa utilizzare il rapporto di stretta dipendenza che esiste tra cinema e sport, traducendo in spettacolo il linguaggio delle immagini con il loro portato tecnico e la tensione verso il mito, caratteristiche connaturate a qualsiasi celebrazione o riconsiderazione dello spettacolo sportivo. In altre parole il suo cinema è capace di costruire il mito sportivo, incrociando il gesto atletico e l’intelligenza tattica con la sua spettacolarizzazione popolare, che solo il cinema o la televisione, come sua domestica declinazione, possono offrire. Un passaggio questo che diventa essenziale per potere comprendere l’ulteriore e forse più coraggiosa operazione che il regista francese ha realizzato con il nuovo film in Concorso in questa 57ma edizione del Festival pesarese. Con Les sorcières de l’Orient, Faraut, sembra volere alzare la posta e laddove il suo film precedente guardava al realizzarsi del mito che diventa idolo delle folle, ma limitato comunque ai pur moltissimi appassionati di tennis per uno sport estremamente tecnico, con quest’ultima operazione cinematografica, il cono dell’imbuto dentro il quale il regista ha deciso di lavorare sembra allargarsi e il suo sguardo, il suo discorso diventa più ampio e generale. Le “streghe”, in questo caso, sono le giocatrici della squadra di pallavolo di una fabbrica tessile di Osaka la Dai Nippon Spinning Co. Un manipolo di coriacee pallavoliste che negli anni sessanta del secolo scorso hanno saputo offrire uno spettacolo sportivo ineguagliabile riuscendo a vincere 258 partite consecutive, record che, riteniamo, resterà saldamente in testa ad ogni guiness dei primati del genere poiché davvero impareggiabile come risultato complessivo per un team sportivo o per un singolo che si cimenti in qualsiasi disciplina sportiva.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Eccole dunque oggi le “streghe”, sono delle attempate signore che con gentilezza e attenzione all’etichetta discutono tra loro attorno ad un tavolo mentre armeggiano con le bacchette gustando il cibo giapponese.
Faraut è capace di costruire attorno alle loro imprese sportive, un film che vada ben al di là di ogni semplice resoconto gazzettiero, che sia soltanto un elenco delle loro vittorie. La Dai Nippon Spinning Co. diventa il grimaldello per un racconto più ampio, per uno sguardo più generale sulle capacità rigenerative del Giappone, sulla costruzione della sua potenza economica, nonostante si fosse all’epoca, a meno di vent’anni dalla guerra che aveva annientato non solo il Paese reale, ma anche quello economico che costituì pertanto, la struttura fondante di questa nuova impresa che è stata quella della ricostruzione a partire dalle fondamenta dell’economia necessarie per assicurare il benessere alla nazione e al suo popolo. Le “streghe d’oriente” diventano, con la loro qualità sportiva, lo strumento di questa narrazione, diventano, soprattutto, forma e alimentazione del mito di un Giappone che torna ad essere invincibile con le sue ragazze operaie, dedite al sacrificio e segnate dal duro lavoro in fabbrica. Un sacrificio che fa il paio con i duri e stoici allenamenti che le ragazze sopportano, insieme alla durezza delle disposizioni dell’allenatore. Un lavoro ossessivo che però cementa anche la loro reciproca solidarietà.

C’è peraltro un lavoro di immaginazione, la reinvenzione della cronaca che costituisce in sé l’humus del tifo sportivo dentro il quale si alimenta la leggenda. Le immagini di repertorio a disposizione di Faraut non sono molte e dunque l’animazione sostituisce l’immagine mancante, quella stessa animazione così connaturata alla cultura popolare giapponese, da diventare omogenea alla struttura narrativo-cronachistica, tanto da completarla anche con una certa accortezza all’interno del più generale e complessivo tessuto del film. D’altra parte è proprio il disegno animato, dedicato alla pallavolo a diventare forma mitizzata dell’impresa sportiva, trasformandosi in vero e proprio genere di consumo tra gli appassionati e con queste caratteristiche diffondendosi anche in occidente.
Faraut sa orchestrare le sue immagini e nonostante la rilevata ed evidente povertà di materiali di cui è in possesso, al contrario di quanto era accaduto con il film precedente, lavora sulla memoria delle sue protagoniste e recupera dagli archivi immagini d’epoca dei loro allenamenti che sanno diventare vere e proprie coreografie sportive, sul fondo scuro di un immaginario palcoscenico, fino a quelle, emozionanti, della finale delle Olimpiadi di Tokyo del 1964 dove le streghe d’Oriente si scontrarono con le bravissime ragazze della nazionale sovietica. Una partita giocata fino all’ultimo punto con la solita caparbia volontà nipponica tesa a a riaffermare quella superiorità orientale di cui il Giappone, con la sua natura di riconquistata potenza mondiale, sa essere Paese capofila.
Les sorcières de l’Orient smette presto di essere un semplice film sportivo, annegate come sono, le immagini prettamente agonistiche, dentro quelle che più attentamente si rivolgono all’altro mito, quello del lavoro e della ricostruzione, ma sanno tornare ad una loro originaria efficacia quando il tempo di quella rinascita si misura sui visi delle sue oggi anziane protagoniste, consapevoli della loro impresa sportiva e per nulla spaventate di restare nel mito e nella storia che segna a loro favore quel lungo rosario di vittorie che ha accompagnato il loro Paese verso la rinascita, frutto per tutti i giapponesi di una altrettanta ferrea volontà di riscatto.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

Sending
Il voto dei lettori
0 (0 voti)
--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array